Claudio Verna, catalogo personale 35° Biennale di Venezia, 1970
Nel lavoro di Claudio Verna l’elementare sta all’ambiguità quanto la lucida geometria all’intuizione primaria del colore-luce. Il quadro (che qui ancora di questo si tratta) fonda su due elementi semplici, il colore – talvolta sono plurimi accordi o contrasti combinati – e la prospettiva, sennonché la seconda è soltanto suggerita: da spiragli di luce, da vibrazioni impercettibili, da tagli repentini. Mentre l’intuizione primaria del colore-luce sembra richiamare il mondo visuale dei pittori americani Noland, Stella, Morris Louis e, quanto al gusto, l’impaginato espanso e misterioso di Mark Rothko, la prospettiva riecheggia una matrice italiana e europea che spazia da recenti situazioni inglesi sino alla metafisica.
L’artista è pervenuto a questa sorta di libero arbitrio con una approfondita meditazione, da un lato intendendo di mettere ordine in un tipo di ricerca dichiaratamente pittorica, dall’altro di offrire allo spettatore l’intensità ottica più magnetica nel colore più spoglio. Il magnetismo sta nell’ambiguità dell’apparenza ma anche nel cantabile che il colore così apertamente prospetta. Sta nella lieve, quasi magica, rotazione delle pagine luminose, nell’eccentrico delle modulazioni geometriche, nella serialità modulare degli scomparti di questi moderni polittici: onde quel loro valore assoluto di insegne che, tra l’altro, dichiara una cosciente adesione ai miti attuali.
E’ quasi certo che Claudio Verna non ha pensato allo hard edge di proposito, e neppure alle ricerche ottiche degli Inglesi o ai tagli di Fontana, ma è certo che egli ha riflettuto a lungo sul suo modo di condurre una ricerca espressiva che, interessando lo spazio pittorico e il colore intriso di luce, non dovesse diventare anacronistico, per la «force des choses», dall’alba al tramonto. La struttura spaziale-luminosa delle sue tele, data con tale decisione, è infatti perentoria e seducente tanto da intrigare per il suo aspetto cartellonistico e per il fascino dei colori accesi, brillanti, autosuffìcienti.
Deposto il gesto del dipingere, Claudio Verna ha continuato a far pittura esprimendo tensioni lirico-sensitive mediante colori allo stato puro. E ora egli viene a trovarsi in una posizione primaria della scena internazionale, non solo per l’alto grado qualitativo del suo lavoro ma anche per il suo ascetismo, raro se non unico nell’odierna vicenda artistica, per la chiarezza, infine, con la quale egli ha portato a soluzione un problema che tra i giovani sembra farsi sempre più irreversibile, il problema della pittura dipinta.
Non è egli, però, tanto solitario nella tradizione italiana della pittura che ha come elemento stilistico fondamentale il colore-luce. In tempi moderni, tale tradizione ha avuto, certo, un precursore in Balla e ha via via rivelato vitalità irriducibile, dall’Astrattismo geometrico a Dorazio.
Del lavoro di Verna soprattutto convincono la sottile esplorazione del possibile ottico, l’accenno sempre ambiguo del quadro come presenza insieme immanente e probabile, la libertà del gioco. Essi sono come impulsi misteriosi che l’artista controlla e soggioga con la semplicità con la quale si risolve un teorema. E gli impulsi, come affermò John Dewey, in arte sono il principio della completa esperienza poiché procedono dal bisogno. Nel caso di Verna, il bisogno è ancora determinato da quell’insinuante verità secondo cui
«Art, wherein man speaks in no wise to man,
Only to mankind – art may tell a truth
Obliquely, to the deed shall breed the thought».