Claudio Verna, catalogo personale Galleria Bambaia, Busto Arsizio, ottobre 1983
Lo studio, come tutti gli studi, odora di pittura; tubetti pennelli ciotole sono sparsi sul tavolo in ordinato disordine, intorno, in una mostra ancora in gestazione, mobile e operosa, tutte le tele. E’ confortante sentirsi circondato dalla pittura, avvolto da questo inafferrabile orizzonte che dilata le pareti della stanza assumendo la dimensione della vita in quella della fantasia, e da forma ai gesti come ai sogni, agli sguardi e alle memorie.
Claudio Verna è pittore come lo sono, ciascuno nella sua misura, Bonnard e Matisse, Rothko e De Stael, o per venire a noi, Mafai e Guccione. Che cosa vuol dire? forse soltanto che Verna è essenzialmente colorista; che il colore giuoca nelle sue tele un ruolo non soltanto protagonista ma quasi esclusivo: lo spazio è colore, la luce è colore, e rimpaginazione stessa dell’immagine, come il segno o il gesto, sono piegati al colore, in funzione di questo. E però quei riferimenti, nati alla rinfusa dal piacere e dall’emozione di questi quadri, significano anche altro, e tra l’altro che Verna si muove sul fronte della vita che si fa cultura, non su quello della pseudocultura che con la vita non ha rapporto e viene, sterile, dalle alchimie di quei critici che credono di cucire la storia col filo dei propri astratti cerebralismi.
Verna è stato oggetto più volte dell’attenzione di cedesti ragionieri del pensiero. Se da oltre vent’anni gli artisti ‘figurativi’ sono usciti dal non ampio raggio d’interesse della critica ‘che conta’, agli ‘astratti’, sia pure meno semplicemente nominati e comunque tenuti non troppo in alto nella scala dell’attualità, è stata concessa ancora cittadinanza: purché si occupassero di certe analisi o tautologie intorno ad una ‘pittura’ che da fatto vitale diventava non sai quale strano oggetto di laboratorio: e l’esegesi che vi si conduceva somigliava a quella di chi affronta un testo letterario contandone le righe. Nella realtà dei fatti – quanto separata dalle opinioni – i pittori veri tiravano dritto senza badare alle etichette che altri appiccicava loro.
Come Verna abbia continuato per la sua strada non curando che lo si includesse in questa o quella troupe, si può vederlo in qualsiasi momento del suo non breve percorso, ed oggi in modo particolare, quando, tutto all’opposto di certi aggiornamenti di convenienza, tornano certi conti sui tempi lunghi, maturano e si chiariscono potenzialità variamente coltivate e sviluppate in venticinque anni di lavoro.
Del resto, nell’ampio interesse che Verna ha suscitato tra i critici non mancano intuizioni assai lucide: “… il momento geometrico e contemplativo trapassa in quello più direttamente compromesso con l’esperienza sensibile”, scriveva Menna nel ’67, quando le immagini del pittore erano diverse ma parevano opposte a quelle di oggi; e appena un anno dopo, senza che la visione mutasse più che tanto, Vivaldi acutamente parlava già di «annullamento della geometria nella luce», ed aggiungeva: «… il senso profondo della sua ricerca non è mai cambiato», affermazione che a maggior ragione si può ripetere oggi. Oggi che la luce-colore si spiega così larga, aperta, trascinante, e si modula o si esalta coniugando cultura e natura in una medesima profonda emozione partecipativa.
Che cosa vuoi dire per il lavoro di Verna, oggi, ‘pittura astratta’? E’ una domanda invadente, perché ci porta fuori dal seminato di questa mostra. L’artista ha dipinto l’anno scorso, tra le tante, una tela che ha chiamato «Ultimo quadro astratto», e un’altra intitolata «Di ritorno da Scicli (omaggio a Guccione)». I titoli, si sa, sono un’appendice poetica, polemica o didascalica, comunque inessenziale, e però possono risultare indicativi. Né l’uno né l’altro dei quadri citati spostano i termini della visione, ormai cosi riconoscibile, ma ci incoraggiano a certe considerazioni.
Se è vero che sempre il suo colore ha fatto i conti con la luce, vero è che la luce oggi cerca e trova un’altra interna tensione; le velature, le liquide sovrapposizioni tono su tono, appena variate proprio per maggiori o minori quantità di luce, ovvero certi gesti che si traducono in pennellate e queste in modulazioni spaziali che di nuovo calibrano e ritmano la luce, tutto ciò crea un’ariosità, persino quasi un’atmosfericità che è tutt’altro che remora naturalistica. Quando certi verdi s’adunano sommossi, cinabri e smeraldi, terre o lacche, lievitanti, respiranti, umorosi, e poi sfrangiano su violetti opachi ora tendenti all’azzurro ora ai grigi – se ne legga pure la ventata che li agita, frondosi e ombrosi, a quell’incantato confine tra il giorno e la notte dove corrono muti e inesprimibili i sensi ultimi: Verna non si sentirà tradito.
Pittore di segno, di gesto, di materia: didascalie utili forse a un primo approccio d’analisi, ma quanto insufficienti; per non dire di altre come pittura-pittura, supporto-superficie e via discorrendo, con cui si è cercato o si cerca d’ingabbiare la storia. Verna è un artista libero e lirico; la sua pittura è di grande qualità e, con ciò stesso, di grande e indefinibile ma godibilissima ricchezza; il suo colore è tra i più belli. Oggi egli rende in immagine un’esperienza del mondo e della vita più piena e matura e coinvolgente che mai.