Claudio Verna. Emozione e controllo, entusiasmo e razionalità sono i due poli di un equilibrio la cui apparente fragilità costituisce motivo di fascinazione, “Flash Art” n.113, Milano, aprile 1983
Claudio Verna, o «della libertà». Qual è la libertà dell’artista? Per Verna è lentissima conquista di un proprio territorio mentale, regolato dalle norme ferree del lavoro pittorico. Non è, questa, una contraddizione concettuale, semmai è l’essenza, la forza, la pulsione interna dell’artista che si fa arte: il primo termine della questione, infatti,- il lavoro interiore – è soltanto necessario, non sufficiente.
Nei rari quadri di questa recentissima stagione di Verna, che data a partire all’incirca dal 1977, si riconosce un percorso coerente di cui una delle costanti è appunto la conquista della libertà e dell’autonomia espressiva.
L’anabasi di Verna, di fatto, parte da molto lontano – è già, in nuce, nelle prime opere dei 1959 – ma pare localizzarsi e concentrarsi, precipitare – in senso scientifico – dopo alcune esperienze individuali e collettive della prima metà degli anni Settanta. Da un lato la confusione critica che ha sempre circondato tendenze come quella di Nuova Pittura o, peggio, gruppi come il francese «Support / Surface», dall’altro la coscienza di non appartenere in toto a queste esperienze, non condividendone le spinte teorizzazioni, ha ingenerato nel critico l’esigenza di rivedere il lavoro passato anche alla luce di questi nuovi esiti, e in Verna stesso ha probabilmente accentuato quelle spinte, latenti ma precise, verso una concezione più libera ed autonoma dell’opera.
Libertà da teorie troppo strette: se l’analiticità è componente importante, alla soglia dei Settanta, anche nelle esperienze precipuamente pittoriche, non è unico fondamento o solo scopo; non sempre cioè il processo pittorico di quegli anni è stato riduttivo, azzerante, spersonalizzato, esegetico: molto spesso infatti la componente emotiva, di felicità fabrile, di espressività non era che nascosta, sotterranea, germinale, ma non per questo meno presente (del resto, basta guardare oggi, i quadri che Verna produceva nel 1972 per accorgersi di come, nonostante tutto, fossero accuratamente “dipinti”).
Libertà dai moduli e dai codici ormai inceppati di una visione manichea del fare arte. Una generazione di “artisti di mezzo” – se così li si può definire -, cui anche Verna appartiene, ha vissuto e vive sulla propria pelle l’equivoco, vecchio, delle scelte di campo definite, che spesso si identificano nella scelta ormai obsoleta tra astrattismo classico e figurazione. Se esiste una certezza in quest’epoca “dopo il Moderno” è proprio quella di non aver certezze: la speranza progettuale, perno attorno a cui hanno ruotato molte avanguardie, è definitivamente tramontata, relegata com’è nell’isola di Utopia, e con lei sono crollati – con molta dignità, s’intende – i codici formali della metà del secolo. Riproporre stancamente o accademicamente tali modelli apparirebbe dunque come un cinico gioco dal sapore vagamente funereo, sostanzialmente inutile. La «costruttività» può anche non essere più un valore: l’esaurimento analitico delle possibilità offerte da un modello formale – pratica tipica di certo astrattismo – non interessa più Verna, che ricerca la propria coerenza di lavoro soltanto nel lavoro stesso, non in uno sviluppo preordinato e previsto, ma anche nella logica casuale dell’evento che si viene manifestando sulla tela.
Questo sentire, questa esigenza di uscire dai confini limitanti di uno stato delle cose
troppo definito, ha spinto Verna sulla strada – può sembrare paradossale – di una più acuta analisi delle motivazioni dell’arte e del proprio essere artista, indagine che ha comunque il proprio riscontro ultimo sempre nella prassi dell’opera.
Verna si è liberato della propria costruzione (o costrizione?) geometrica, anche dell’indicazione, cosi frequente nei suoi quadri precedenti, di un confine segnato, tratteggiato, che non sia lo spazio della tela. L’ordine razionale che la geometria di fatto istituisce (pur non essendo esente da notevoli implicazioni simboliche e psicologiche) appartiene infatti al canone conosciuto e riconosciuto, al codice acquisito che si sente il bisogno di lacerare. Ci si inoltra così nel territorio sconosciuto dell’hic sunt leones, territorio che si rivela soltanto mentre lo si percorre: i modi e i metodi dell’esplorazione sono noti, incognito è il risultato.
Così Verna, a partire ad esempio da quadri come Nero Nero del 1977, si addentra nei problemi della pittura con la sola sicurezza di dover abbandonare terre troppo sfruttate. L’apparente orizzonte vagamente curvilineo riesce appena a contenere il colore; non è striscia di confine, è superficie esso stesso: il nero che copre lascia intravedere, intuire quasi infiniti mondi di colore al di sotto di esso, tutti altrettanto accuratamente dipinti e sepolti da altri colori: l’attivazione dello strato superficiale dipende così dall’accumulazione di senso -accumulazione magica – determinata dagli strati inferiori, invisibili eppure presenti. La «stampella» geometrica non esiste più. Si corre sul filo di un rasoio (Verna come blade ranner?) che separa l’empito emotivo dalla razionalità dialettica, l’abbandono romantico dal controllo iperrazionale: deviare dalla sottile strada di confine tra i due campi significa fallire, ricadere nel già visto, privilegiando ora la parte analitica, ora il campo dell’esistenziale.
Tuttavia Verna è ben cosciente dei pericoli che insidiano la sua ricerca: l’istinto all’abbandono, l’ansia di trovare forse nuovi codici, di difficile individuazione e consumo, impongono una dura vigilanza razionale, che si esplica anche nella disciplina della pittura. La preparazione a gesso – che assorbe innumerevoli strati di colore – il passare e ripassare sulla tela, il raschiare gli strati superficiali per far emergere gli inferiori costringono l’artista ad un’azione lentissima, meditata, reiterata sullo stesso quadro, che impedisce ogni cedimento momentaneo, ogni abbandono immediato: Verna dipinge pochissimi quadri, e quasi tutti sono lavori germinali di altre opere. // Trittico del 1978 sembra quasi un «manifesto pratico» del modo di procedere di Verna. Le tre tele verticali, infatti, istituiscono tra loro un rapporto che più che crornatico-spaziale è quasi temporale: le tele sembrano essere un’unica opera, bloccata nel suo farsi in diversi momenti di stesura. Così, per la germinalità, guardando opere come molti Senza titolo del 1979 o Pittura dello stesso anno, o ancora Contro! del 1980, si ritrovano già le pennellate violentemente gestuali che irrompono sulla superficie come nei più recenti Inserto, Red extra o Indigo, tutti del 1982.
Il rapporto formale che lega ormai in queste opere recenti le due facce dicotomiche della pittura di Verna – emozione/controllo, entusiasmo/razionalità – costruisce un equilibrio difficile ma stimolante, una relazione che non possiede il carisma dell’identificato, relazione che si rimette continuamente in discussione, dove la fragilità apparente costituisce motivo di fascinazione.
L’irruzione nel campo della tela della gestualità evidente del pennello richiama certo esperienze vagamente informali, ma il gioco del quadro è più sottile: la lentezza
dell’esecuzione stravolge il gesto, così come la superficie non è mai stata, in Verna, un campo monocrorno da violare, ma semmai un brulicare di sentimenti ora affioranti, ora immersi nel gran magma del colore.
II gesto della pennellata entra così in relazione dialettica con la durata della meditazione ideativa, elemento, quest’ultimo, non solo presente nel modus operandi di Verna, ma evidente nelle sue stesse opere. Una violenza apparente – o, meglio, una violenza secondo i codici formali acquisiti – si stempera nella grazia: l’azione, l’atto finale, il gesto sulla tela, sono infatti il momento catartico di un lungo processo, parimenti presente nella tela.
Così, l’opera non si configura come shock, come scarica improvvisa quanto
momentanea, ma come continuum di senso, quasi una sinusoide, mai una linea spezzata. E questa sensibilità, questa attenzione per la «grazia» non è certo un cedimento: Verna infatti sceglie la difficile via di mantenere costantemente alto il registro dell’opera, senza cadute di tono, e senza effetti plateali. Il registro della grazia è quindi tra i più impervi, perché anch’essoè in bilico sull’abisso del «grazioso». Ne La grazia esiliata del 1981, Verna con molta autoironia – il titolo stesso richiama alla mente poemi barocchi o arcadici – tenta la carta dell’esclusione dal campo della grazia, per autoconvincersi che questo presunto esilio non è che un trionfo rimandato.
Del resto, tutto concorda: la durata dell’ideazione e la durata dello svelamento dell’opera concorrono a fare dei quadri di Verna dei personaggi dal metabolismo lentissimo, nonostante il recente inserimento di elementi dirompenti. La sottile seduzione di queste opere deriva proprio da questo rapporto di difficile individuazione e di quasi impossibile definizione. La consistenza equilibrata di elementi disequilibranti potrebbe essere lo spiraglio di soluzione della ricerca intrapresa all’inizio di questa nuova fase.
Naturalmente, gli elementi di cui si parla, non appartengono soltanto al modo delle possibilità formali della pittura, ma coinvolgono decisamente tutta la sfera mentale dell’individuo. Ragione ed emozione, apollineo e dionisiaco appartengono al mondo poetico di Verna in percentuale dialetticamente calibratissima: una dose diversa potrebbe essere mortale.
Ma il segno non è concepibile senza il colore, anzi, per Verna, il segno deve essere colore: l’autonomia e l’energia di cui è caricato il segno, gli vengono ancora una volta principalmente dal colore, e ciò è maggiormente percepibile nella splendida serie di pastelli di questi ultimi sei anni, dove non ha quasi più senso separare i concetti di segno da quelli di colore e, talora, di campo. Non a caso, negli scritti e nelle interviste dell’artista, i nomi che più ricorrono sono quelli di Matisse e di Twombly..
La natura del colore e del segno di Verna non cade mai nella pericolosa trappola della narrazione, della rappresentazione o, peggio, della descrizione, e ciò non significa che gli elementi del quadro non possano avere valenze evocative, tutt’altro. Sia l’uno che l’altro elemento infatti, ormai non possono prescindere dal richiamare in certa misura memorie naturalistiche: il verde-azzurro di un piccolo formato ricostruisce un orizzonte, certe pennellate di quadri recentissimi ricordano una formicolazione vegetale, tuttavia Verna non rifiuta tutto ciò (come avrebbe fatto qualsiasi astrattista più anziano di una sola generazione), a patto che l’immagine evocata alla mente costruisca una realtà parallela, reinventata, totalmente pittorica.
Si tratta cioè di costruire una nuova natura, una diversa realtà fenomenica, che non sia più fondata però sul dato naturalistico, che si rifà all’esemplarità del mondo naturale. Di qui l’ammirazione dichiarata – e mai rinnegata – di Verna per De Stael, in cui si vedeva il tentativo di risolvere il drammatico conflitto della consistenza di queste due diverse realtà.
Comunque, la strada intrapresa da Verna va affrontata in solitario; non esistono più puntelli teorici, le tendenze si sono dissolte, il lavoro si giustifica solo sulla base della propria qualità. Anche i padri ideali, del resto – i già citati Matisse e Twombly, più, importantissimo, Gorky – appartengono a quella ristretta schiera di isolati outsiders dell’arte la cui opera rimane però emblematica: Matisse, il colore; Twombly, il segno (non soltanto il graffito); Gorky, la capacità di trasvolare dalla grazia e dalla leggerezza della trasparenza alla matericità più densa, sono nelle memorie pittoriche di Verna, senza esserne tuttavia banalmente ossequiati.
Se non conservasse echi troppo misticheggianti, si potrebbe condensare questo percorso di Verna nella parola «purificazione», o «ascensione»: risultato che si acquisisce da soli, nel rapporto quotidiano con la meditazione e col proprio lavoro. Il fine, si è già detto, è incognito, o forse è sin troppo noto: lo scopo è porsi le domande, non dare le risposte. Chiedersi, come fa Verna, quale sia il limite tra istinto d’abbandono e necessità di controllo; se la libertà, in pittura, è ancora possibile; se questa libertà confini di necessità con un concetto romantico della vita; se si può trovare – o anche solo cercare – un codice nuovo; se, infine, la felicità della pittura non sia, ancora una volta, la ricerca della bellezza; ebbene, tutto ciò costituisce una sfida che vale senz’altro la pena di accettare.