Emozione e gesto. Opere recenti di Claudio Verna, “II Giornale”, Milano, 29 novembre 1987
Claudio Verna, artista abruzzese (di Guadiagrele) trapiantato a Roma, tra i maggiori della generazione «di mezzo», torna a Milano con un’importante personale di opere recentissime, quasi tutte di quest’anno. Lo ospita la galleria Morone 6, il cui indirizzo culturale è da sempre in ideale sintonia con il suo lavoro; e che poco più di un anno fa già aveva presentato un gruppo di questi suoi dipinti ultimi in una mostra che, sotto il titolo «La forma emozionata», intendeva mettere in evidenza una situazione esemplificata in Aricò, Vago e, appunto, Verna – di interazione, nella determinazione della pittura, di pratica e teoria, gesto ed emozione, pensiero e vissuto. Dove l’espressività, la tensione cromatica e gestuale si fondono con la decantazione mentale, e anche con intenzionalità in qualche misura analitiche. La nuova occasione consente di approfondire meglio tale comprensiva interazione di livelli, fuori delle generalizzazioni che l’individuazione di costanti in più artisti inevitabilmente comporta: di capire cioè, o cercar di capire, l’intrigante coesistere, che la pittura di Verna offre, di accattivanti luminosità e di nervose vibrazioni, di dilatazioni spaziali e di improvvise, tese, o addirittura allarmate, condensazioni.
Guardando le sue tele, talora vaste e aperte, talora più piccole e concentrate, si vive necessariamente un’esperienza dinamica. Ad un primo impatto che suggerisce una certa impressione e stimola una data risposta percettiva ed emotiva succede all’improvviso come negli effetti ottici che fanno scattare il ribaltamento del rapporto tra figura e sfondo, presentando come aggettante quanto sino ad un istante prima appariva come arretrato – la sensazione di un qualcosa d’altro: però a quanto s’era prima avvertito interno, e come intimamente presupposto.
Così la luminosità dei colori, chiari spesso, accattivanti, lascia trasparire il serpeggiare d’una crepitante inquietudine; e il segno che dapprima esibisce una qual diretta spontaneità subito ti richiama ad un controllo meditato, o viceversa.
Né meno complesso è lo spazio, che ha suggerito ad Elena Pontiggia, curatrice di questa mostra, l’efficace citazione di una frase di Nicolas De Stael: «Lo spazio della pittura è un muro, ma tutti gli uccelli del mondo vi volano dentro». Ed il riferimento è tanto calzante che Verna ha adottato quelle parole quale titolo per il maggiore dei dipinti esposti: «II muro degli uccelli», appunto. Un muro che chiude ogni possibile affondo prospettico, che si da «come un limite», invaso da un colore «chiuso e denso, come un sipario», scrive Pontiggia, subito aggiungendo che «infinita, e ansiosa, è l’animazione che lo agita, i segni e i voli che lo attraversano», in «un dibattersi, un agitarsi arruffato dei segni che devono farsi spazio perché la vita è movimento, e che nello stesso tempo non seguono uno schema fissato in anticipo, ma procedono a urti e raffiche, secondo tracciati imprecisi».
Quel grande quadro, anche per le sue misure (due metri e venti per tre e ottanta), permette di cogliere agevolmente quel controllo strutturale e quell’intensità segnica e cromatica che ormai da un decennio sono caratteristiche di Verna. Prima l’artista aveva insistito puntigliosamente su di un lavoro analitico (però sempre nella pittura, con la pittura, senza lievitazioni in teorizzazioni prevaricanti e all’opera esterne): «per giungere finalmente», egli stesso ha commentato, «ad una maggiore libertà». Quella odierna, che infatti è tale anche per l’analisi che l’ha preparata, che tuttora traspare dalle mosse trame di colore.
Sempre quel vasto dipinto da l’impressione del profilarsi all’orizzonte del pericolo d’una autosufficiente, compiaciuta bellezza, che potrebbe far approdare ali1 abbandono sensuale nei valori puri del decorativo. E Verna lo avverte, cercando di contrastarlo con inquiete asprezze: che derivano quindi, ancora, dalla pittura, non da interferenze narrative o da fattori preminentemente emozionali, in un contesto che si ripropone, con novità di accenti e soluzioni, lucidamente analitico. «L’inquietudine», ha detto Filiberto Menna a proposito di queste opere, «nasce dal rischio della bellezza». Un rischio, peraltro, che Verna non aggira immergendovisi con partecipazione di mente e di sensi.
In altre tele, più “informalmente” diramate (Immagine persa, ad esempio), risalta invece un’altra importante componente del metodo operativo dell’artista: il «ripensamento continuo» su tutto il suo lavoro e quindi lo stabilirsi, secondo le sue parole, d1 «una sorta di contemporaneità, ma nello stesso tempo di rapporto critico, tra le varie fasi» di attività, con differenze ed elementi comuni, e con l’interagire di passato e presente, nel generarsi di “reazioni a catena” tra il nuovo e il già dato. In un fitto intrico di componenti, tra le quali si avvertono sensibili le radici nell’humus romano: da Balla, come ha ricordato una volta Fagiolo, a Dorazio, ma anche a un Twombly. Con conseguenze che diversificano Verna da quegli artisti milanesi che pure per più aspetti possono essergli avvicinati: come nella mostra già citata, un Aricò o un Vago.