Claudio Verna, L’impronta del gesto, “Tema Celeste” n. 19, Siracusa, gennaio-marzo 1989
Il difficile esercizio del magistero pittorico è inteso come esplorazione sistematica di tutta la gamma delle potenzialità espressive del colore.
Verna ha liberato la sua pennellata senza mai rinunciare all’esigenza di organizzare e risolvere il flusso indisciplinato del colore.
Claudio Verna, ovvero le ragioni della pittura. E’ questa una definizione che sorge spontanea nel rileggere le vicende di un percorso che, pur attraverso mutamenti e scarti sensibili, appare contrassegnato da un’assoluta coerenza, da un rigore che è anche dedizione esclusiva e appassionata al difficile esercizio del magistero pittorico inteso come esplorazione sistematica di tutta la gamma delle potenzialità espressive del colore.
“Ormai sì parla di pittura soltanto come indagine mentale. Ognuno è lucidissimo a parlare dì sé e delle leggi che lo governano (che si è dato e che sono modernissime) ma poi, al dunque, deve ammettere che quando lavora o ‘si abbandona’, o diventa ‘passivo’, o si lascia ‘guidare’ da quanto suggerisce il primo colore dato, i riflessi del bianco o l’imprevedibile ambiguità della percezione. Ed è giusto perché ogni pittore, ogni artista, è quello che fa, non quello che vorrebbe fare. Le intenzioni, in arte, sono quasi sempre giustificazioni.
Certo, la pittura ha un retaggio dì anacronismi e di pastoie difficili da estirpare, ma anche nei critici e nella gente ci sono pregiudizi da rimuovere. Oggi un pittore deve ‘non sentire’ certe osservazioni, per non esserne inevitabilmente irretito. Inoltre, non si può fare pittura, non dipingendo. E i pittori devono smetterla di giustificarsi, facendo pittura ma negandola a parole. E’ un gioco crudele, un complesso di inferiorità pericoloso. Pittura non significa solo analisi critica della pittura, anche se non è possibile dipingere senza la consapevolezza critica degli strumenti che si adoperano.” (Claudio Verna, gennaio 1974).
Passato attraverso il filtro della pittura analitica, Verna ha successivamente liberato la sua pennellata, rendendola più mossa e discontinua, ma senza mai rinunciare del tutto ad un controllo mentale, ad un’esigenza di organizzare e risolvere in una salda struttura il flusso indisciplinato del colore. E’ questa una costante che attraversa tutto il suo lavoro e che sembra nascere dalla dialettica interna di due forze in contrasto: da una parte l’abbandono al piacere del colore, all’espressività immediata del gesto, dall’altra una marcata esigenza costruttiva che tende a raffrenare e governare l’urgenza delle spinte pulsionali, riconducendo nei contorni definiti del linguaggio le esperienze che si consumano nelle regioni profonde, interdette alla ragione.
Un atteggiamento di fondo pienamente rispecchiato nella singolarità di un processo operativo che si sviluppa per gradi successivi, segnati da pause e riprese, all’insegna del doppio registro dell’espansione e della concentrazione, della velocità e della dilatazione temporale. L’opera prende vita lentamente accompagnata da un assiduo e vigile intervento di revisione critica, procedendo per fasi alterne di cancellazione e rimozione del già fatto e la tessitura instancabile di nuove coltri di colore. Le tracce cromatiche sedimentate sulla tela conservano l’impronta del gesto e il retaggio di una esperienza, raccordando i vari momenti del processo operativo in una continuità che si fa memoria, una memoria stratificata nel corpo della pittura.
“La pittura è per me impegno totale, esercizio ininterrotto di libertà, coscienza e conoscenza, ma anche piacere o almeno ricerca di piacere. Ecco perché lo sviluppo del mio lavoro non passa soltanto attraverso la sua elaborazione formale, che certo ha il suo peso, ma soprattutto attraverso il suo livello di creatività, in una articolazione spontanea di percezione e pensiero, di cultura ed energia vitale. Quando mi pongo di fronte alla tela, non ho mai il complesso della pagina bianca, ma la sensazione di avventurarmi in qualcosa che mi promette, appunto, piacere. Forse per questo non cerco di approfittarne, ma elaboro il quadro con lentezza, pronto a seguire gli inviti e le suggestioni di quanto si va organizzando sotto i miei occhi. Il quadro così non nasce con il proposito di colpire o sorprendere lo spettatore, ma al contrario di farsi avvicinare lentamente ed agire con il massimo dell’efficacia man mano che aumenta il tempo della sua lettura ” (Claudio Verna, ottobre 1979).
Nelle opere realizzate nella seconda metà degli anni Settanta l’articolazione delle masse cromatiche è orchestrata su una tinta base che progressivamente ricopre e occulta, quasi totalmente, la fitta trama dei segni consegnata al supporto. Un colore che tuttavia sfugge alla compatta staticità del monocromo per fermentare a vista e accendersi di mutevoli riflessi e sfumature tonali, restituendo una superficie vibrante e dinamica dove l’accavallamento ondoso delle pennellate genera continui passaggi di tensioni luminose.
Si ripropone qui il modello di un’impaginazione spaziale già presente nel precedente lavoro a dominante analitica, dove la nitida stesura monocromatica appariva attraversata o serrata ai margini da bande di colore, disposte in senso verticale o orizzontale, quasi a misurare il perimetro della tela e a ricondurre l’accento sulla superficie. Disciolto dal rigore della definizione geometrica, questo schema si ripresenta sotto forma di brevi frasi cromatiche, dissonanti e accese, che movimentano la base del quadro o si avventano perentoriamente sulla superficie ad esplorare lo spazio, distribuendosi secondo tracciati verticali o obliqui.
Lentamente nel corso degli anni questo schema tende a scomparire o meglio a modificarsi, subendo una sorta di processo di dilatazione che instaura un diverso gioco di tensioni dinamiche, un serrato contrappunto tra alto e basso, tra superficie e profondità. L’organizzazione compositiva appare sovente articolata su due zone cromaticamente contrapposte che si esaltano a vicenda, opponendo al canto dispiegato del colore puro la rarefatta traina dei bianchi intessuta di diversi gradi di trasparenze, velature, accensioni improvvise dì rivoli di luce. La compattezza del tessuto pittorico sembra cedere alla irruzione di veloci traiettorie di segni e di nuclei cromatici disseminati con apparente casualità sull’intera superficie, mentre, altrove, improvvise smagliature lasciano affiorare gli strati sottostanti sotto forma di virgole e tasselli irregolari di colore.
“Io disegno moltissimo, ossessivamente, ma non conservo niente. Sono il momento più segreto del mio lavoro, la decifrazione dei miei fantasmi, quasi un movimento automatico della mano. Non faccio mai un quadro sulla base di un disegno, ma senza disegnare non potrei dipingere”. (Claudio Verna, novembre 1982).
Già a partire dall’84 si comincia a notare una maniera più sintetica e larga di trattare la materia, lavorata per grandi masse appena sbozzate, sovente ridefinite e circoscritte da una spessa e veloce pennellata di contorno, quasi a creare un argine al flusso del colore, assecondando i dettami di un’ostinata volontà ordinatrice.
Questa esigenza costruttiva che percorre come una linfa sotterranea tutto il lavoro di Verna emerge con forza particolare nelle ultime opere, segnandole di un accento inconfondibile. Aggregate le une alle altre, le masse di colore si giustappongono attraverso un procedimento di montaggio di sapore quasi architettonico, che trova nella spazializzazione della pennellata orientata secondo andamenti orizzontali e verticali il suo principio strutturante. Ogni elemento, ogni tache di colore acquista un peso, una tangibilità quasi fisica che elimina ogni dispersione, ogni fuga atmosferica, serrando da presso la zona centrale che emerge con forza, quasi sospinta da una forza irresistibile dal fondo oltre la superficie.
“Un pittore potrà tentare di decifrare il proprio rapporto col mondo soltanto con l’opera, punto di incontro di tutte le contraddizioni, sintesi imprevista, e imprevedibile, di teoria e pratica.
Come diceva Brancusi, difficile non è creare, ma riuscire a mettersi nella condizione giusta per creare. L’opera sarà così il risultato di un lungo processo in cui tutti gli elementi che vi concorrono hanno pari valore: speculazione e prassi, manualità e cultura, coraggio, fantasia, eversione, ecc. Non sarà mai la didascalia di un’idea, come sembravano suggerire certi concettuali, ma qualcosa che esiste e conquista una sua verità solo nel momento della sua realizzazione, quando tutto è possibile e il rischio è massimo. Rothko ha scritto che un quadro è una ‘rivelazione miracolosa’ altri più modestamente hanno parlato di mistero o di avventura; ed è vero, ma certo è un’avventura preparata con fatica e lungamente perseguita.” (Gennaio 1985). ‘Potrei ancora parlare di me e della mia esperienza, ma voglio credere che azzardi, libertà, rischi e qualche possibile risultato siano una cosa sola con la mia pittura, alla quale mi rifaccio, con sorvegliata attenzione, per continuare a dipingere. ” (Claudio Verna, febbraio 1985).
Contemporaneamente il segno sembra catturare nel suo intricato fraseggio l’affiorare allusivo di un’immagine, di un luogo, di una situazione, riconducendo a galla dagli strati profondi una rete di sensazioni visive, emozioni, frammenti di realtà, sedimentati nelle coltri della memoria. Contrariamente al passato dove la dialettica tra ragione e sensibilità, tra mente e pulsione, si risolveva a favore di uno o dell’altro dei due termini, oggi Verna sembra disporsi in maniera più libera e confidente verso un’integrazione dei due momenti, stabilendo nuovi rapporti e armonici equilibri.
Un processo particolarmente evidente nei lavori realizzati la scorsa estate in Sicilia dove la modulazione astratta dei segni sembra restituire, per via puramente analogica ed evocativa, suggestioni di orizzonti e scenari tratti dal vasto quadro della natura e riscaldati dal filtro del ricordo. Anche il colore sembra adeguarsi a questa nuova temperie espressiva, raggiungendo un alto grado di saturazione luminosa attraverso una sapiente orchestrazione di accordi e giustapposizioni di tinte che si rafforzano a vicenda, esplodendo nella calda solarità mediterranea dei rossi, degli aranci, dei rosa, nella squillante intensità timbrica del giallo. Sullo schermo bidimensionale della pittura la fitta trama dei segni forma così una sorta di barriera, attraversata e percorsa da forze e pulsioni che rinviano a qualcosa che è al di là e al di qua della soglia del linguaggio. Qualcosa che rimane in ombra, celato. Perché, come direbbe Hofmannsthal “Bisogna nascondere la profondità. Dove? Nella superficie”.