Claudio Verna, l’eterno ritorno, catalogo personale Galleria Edieuropa, Roma, febbraio 1995
Claudio Verna è un pittore degli equilibri, non degli scompensi. Quale che sia l’idea iniziale, la più aritmica e asimmetrica che si dia, l’approdo esprime una giusta distribuzione, pienezza formale, contemperamento di tutte le pulsioni possibili. Verna ama anche i colori violenti, quelli che determinano rapide dissonanze e rivolte interne ma, a quadro finito, i colori, da rissosi che erano, paiono semplicemente accesi. La misura classica impone la sua regola e pilota le pulsioni irrazionali, gli eccessi temperamentali, verso il porto sicuro della struttura coerente e necessaria.
Qualcosa di analogo accade in poesia, dove il poeta può ricorrere alle immagini più esplosive, può «sputare l’anima» mettendo a nudo se stesso e sconvolgendo la placidità fiduciosa del lettore, ma il poema sarà tanto più intenso quanto più sarà incanalato entro l’apparente costrizione del ritmo, della metrica e, perfino, della scelta dei nessi sillabici al servizio dei significati.
Mi sorprende un rilievo che Verna solleva verso qualche pittore: «fa dei disegni e poi li colora». Ovviamente, Verna non opera così. Egli non disegna; il disegno non è riassorbito e cancellato dal colore. Verna adopera il colore in modo strutturante, lo vuole autosufficiente, autoesplicativo. Non c’è bisogno, di fronte ad un dipinto di Verna, di ricorrere a delle metafore naturalistiche: livido come un’alba invernale, solare come il Mediterraneo, verde come un prato. A parte il fatto che si tratta di metafore devastate da tonnellate di cattiva pittura, credo che il suo obbiettivo sia quello di fare opere che non rimandino a spiegazioni di ordine letterario o di altro tipo.
La pittura sarà cominciata come attività magica per catturare gli animali e tenersi buoni gli eventi naturali, ma le personalità più avvedute, oggi, pensano in termini centripeti. Con la natura si ha in comune la bellezza – e la bruttezza ~, i mezzi per esprimerla sono distinti: nessuno s’ispira, imita, succhia la natura per pervenire ad un’affermazione di bellezza. Questa è insita nello stesso fare pittorico, nella stretta concezione dei mestiere, con le sue regole e le sue improvvisazioni inopinate e, talvolta, inconsulte.
Perché il risultato è sempre un’alea – anche per Verna – pur non essendo casuale? Le regole, sebbene non siano costrittive, sono solide; cultura visiva e tecnica si affinano vieppiù; l’ispirazione non difetta, eppure un dipinto riesce ed un altro no.
La risposta va cercata nella natura stessa dell’arte.
L’arte è l’eccezione nell’ordinarietà della vita, è la differenza irriducibile rispetto alla meccanicità dei gesti e delle procedure, è l’assoluto delle intenzioni che, al vaglio della realizzazione, si rivela quasi sempre appannato dalla placenta della vita. Lo sforzo titanico dell’artista consiste nell’azzerare cedeste scorie: da un certo punto in poi i miglioramenti tecnici non aiutano più, certe volte la mano trasmette al pennello la purezza dell’idea formale e certe altre no. Non esiste un percorso, si è fermi a contemplare un momento aurorale o zenitale della propria ispirazione e a cercare di fissarlo tale e quale si è prodotto nella nostra coscienza.
In realtà, quando si parla di eterno ritorno non si allude all’esteriorità dei temi, alla somiglianza di certe immagini, alla ripresa di partiti cromatici già impiegati nel passato, si allude a quel moto apparente che va dalla diversità delle opere prodotte alla singolarità del nucleo ispiratore. Poiché il pittore ha una storia e vive nella storia, l’evoluzione dei temi, dei cicli, dell’uso di certi colori lo porta a potenziare il mestiere, l’arte calata nella vita, il bello che si vende. D’improvviso, a momenti dati, egli s’impone una revisione e apparentemente ritorna alle radici della propria ispirazione, alle ragioni fondanti della sua evoluzione. In realtà egli torna al punto da cui, in quanto demiurgo dell’assoluto, della pittura fatta per la contemplazione e non per il mercato, non si è mai mosso. Da quel punto il vero pittore non si disancora, perché non è un punto di partenza, ma il solo punto nel quale l’arte esiste.
In questa mostra il pubblico potrà riconoscere temi già trattati da Verna: il dipinto costruito come un dittico; il quadro nel quadro; delle orme, tracce sistematiche che intersecano una materia all’apparenza caotica ed anarchica; infine, dei tondi che costituirebbero l’acquisizione più recente.
Come ho provato a spiegare, cedesti ritorni di temi e forme rappresentano soltanto l’esteriorità del dipinto. Quel che conta in essi è rimmedesimazione per esprimere un assoluto, l’assoluto della pittura e non l’assoluto del mestiere. Non penso che Verna ci sia sempre riuscito e le approssimazioni non contano se non per mantenere le quotazioni di mercato. Le opere che gli sono riuscite ci restituiscono uno dei più intensi pittori viventi: classico, gioioso, esemplare.
Come si forma e come si struttura un dipinto di Claudio Verna?
Non ci saranno tutte le 14.400 tonalità inventariate da Chevreul, ma la sua gamma è estesa, spaziando dai registri alti, acuti, caldi, a quelli tenui, pacati, quasi evanescenti. Nella tessitura di un quadro o c’è dialettica tra colori forti, per esempio giallo e rosso, oppure la base è data da incastri di colori equivalenti per densità e luminosità, squarciati da isole di colore forte, tanto più forte quanto più ristrette di area. L’artista non segue un piano preciso di svolgimento, ma è come se, da un certo punto in poi, i colori adoperati possedessero un qualche potere di autostrutturazione.
Verna, metaforicamente, dice: «il quadro si fa da sé». Nei fatti, la capacità organizzativa appartiene alla mente e questa cerca e trova nei colori le risonanze giuste per confermare l’intuizione compositiva. L’opera completata, quando è complessa, può essere paragonata ad un’architettura senza fondazioni, senza muri divisori, composta solo di spazi concatenati e distribuiti liberamente. I colori sconfinano l’uno nell’altro e l’uno sull’altro e quasi mai sono nettamente delimitati. I timbri dei suoi colori sono tra i più belli che si possano rinvenire nella pittura contemporanea.
So che Verna non lesina nelle quantità e mi fa venire a mente Gauguin per il quale un chilo di verde fa più verde di mezzo chilo. Quando l’opera è breve, si presenta come un improvviso, una luce che rivela o si smorza, ed è in questi casi che si può misurare appieno la capacità di intendere il colore come una qualità separata e non come una proprietà dei corpi. Ci sono ancora i tondi. Si presentano sotto due aspetti. Vuoti al centro, avendo spinto i colori ai margini della circonferenza, ovvero carichi di materia cromatica che si organizza secondo le leggi d’equilibrio già evidenziate. Nel primo caso il ricordo va a Mantegna che spinge le figure ai margini della balaustra, determinando un equilibrio tra narrazione e vuoto, tra moto e stasi. Nel secondo caso il colore preme in tutti i punti dei dipinto, non si legge da sinistra a destra ma tutto insieme, afferma la pittura come monade, universo chiuso, alternativo a quello che ci contiene.
Se San Giovanni della Croce, quando si è guardato dentro, ha visto la nera notte dell’anima, Claudio Verna, invece, dentro di sé ha rinvenuto colori, una materia prima esuberante da trasformare da connotato di una psicologia in arte.
Il modo in cui l’ha fatto, mescolando precisione ed indeterminatezza, fissando regole ferree per arginare l’anarchia dei colore, oscillando tra poesia ed intellettualismo, tra abbandono dionisiaco e ascetismo severo, costituisce il suo contributo all’arte dei nostro tempo.