Il cerchio di Verna, in monografia Electa, antologica Palazzo Sarcinelli, Conegliano, dicembre 1998 – gennaio 1999
Il 1959: è un anno lontano, ormai, quello che ha segnato l’avvio della pittura di Verna. E, per la pittura, il lungo tempo che è trascorso, da allora ad oggi, non è stato un tempo facile. Se ne è predicata la riduzione necessaria dei sogni ad un algido suo grado zero, di perfetta inemotività, prima; poi sono stati variamente il blank dei concettuali, il piglio oggettuale e tautologico del poverismo, le varie declinazioni del minimalismo, e quant’altro, a predicarne la morte; infine, ancor più insidiosamente forse, se ne è ipotizzata la rinascita all’ombra di un post-moderno sulle cui false fondamenta s’è preteso, per gioco e in ogni campo, di ricostruire il mondo stanco di neo avanguardie. Per paradosso, d’altro canto, quel 1959 segnava il culmine d’un decennio in cui la pittura – in Europa, oltreoceano, e nel nostro Paese in particolare – aveva saputo risorgere dalle ceneri di avanguardie ormai lontane, e salire sino ad una densità di significato di una pregnanza assoluta.
Verna, con altri compagni, ha vissuto intensamente la difficile stagione di transito che ha segnato la sua prima maturità. L’ha vissuta senza protervia, e senza condiscendenza. Non ha preteso di ignorare le ragioni del tempo nuovo che s’addensava, né d’altra parte ha rinunciato a difendere quelle che riteneva essere le sue, quasi in tutto diverse, ragioni. Tutto questo ha fatto con un’acribia critica non usuale in un pittore, e d’altra parte non cessando mai di confessarsi, agli altri come a se stesso, prima di tutto un pittore.
Credo che alle volte il dissidio fra quel che sapeva e quel che voleva, fra quel che sapeva opportuno e forse ‘giusto’ (o comunque necessario a tener aperta la porta a quella comunicazione con l’altro a cui non ha smesso di credere) e quel che cercava per sé, sia stato così aspro da scorarlo. Se da quello scoramento è infine uscito, lo ha fatto, ogni volta, armato soltanto della sua pittura, e delle idee e dalle voglie di pittura che non ha mai abbandonato. E’ per questo, infine, che credo che Verna sia un pittore, come pochi ai giorni nostri, vero, saggio, e non ignaro di quella malinconia che, quando abbia toccato un’esperienza e se ne sia allontanata, sa renderla più consapevole e più intensa.
E’ andato e tornato tante volte sulle medesime strade. Con un’idea di pittura che, lontana dall’alterigia che è stata di Picasso, ha nella lenta circolarità della ricerca, e non in un unico approdo fatale, la sua ultima verità. Verna, forse, non ha mai ‘trovato1 una volta per tutte, e per sempre. Così che i suoi quadri, i grandi quadri che segnano le tappe fondamentali della sua ricerca, stanno disposti da qualche parte di questo suo cerchio ideale, che circonda e assilla la sua ansia di parola.
Aeqizio 1976. Da qualcosa più di dieci anni, a questa data, Verna esercita, con rigore assoluto e senza alcun brusco trapasso, una pittura di puro colore e di forte impronta geometrizzante che troverà collocazione nell’ambito della cosiddetta pittura analitica. In lui, su questa scelta ha avuto peso una singolare precipitazione di quasi opposte suggestioni : da un canto da dir autenticamente provinciali (la tradizione, sin dall’immediato dopoguerra radicata a Firenze, dove egli andava compiendo nei secondi anni Cinquanta la sua formazione, dell’astrattismo classico”, rispetto al quale si disponeva in continuità ideale, proprio allo scadere di quel decennio, la generazione nuova dei Guarneri, dei Masi…); dall’altro proprie di quel clima internazionale che, in alternativa alla pop dilagante, si percepivano diffusamente come modo possibile di uscita da un informale giunto ormai alle sue declinazioni estreme. Un clima in cui l’antica lezione concretista, esportata oltreoceano dal magistero di Albers, e depurata dagli equilibrismi e dalle ambivalenze percettive della scuola cinetica europea, si coniugava con l’azzeramento pittorico di Reinhardt, dando luogo ai casi, già pienamente in luce anche in Europa prima della metà degli anni Sessanta, di Noland, Kelly, Frank Stella e della scuola dell’hard edge.
Quello che Verna ha protratto per oltre un decennio – coincidente con il tempo della sua prima maturità – è dunque un tragitto che, non ignaro delle tensioni che animano la ricerca internazionale, ha radici lunghe in un tessuto connettivo intimamente proprio, e lontano dalle più banali suggestioni della moda. Nel contempo, esso non è – al contrario di quanto sovente s’è poi mostrato di voler sottintendere – il suo ‘luogo’ originario ; né coincide con la tappa sua di più vasto respiro, nemmeno da un punto di vista strettamente cronologico, come ormai i lunghi e densissimi anni trascorsi da allora possono agevolmente attestare. E’ dunque giunto il momento di prendere atto definitivamente dell’incongruità critica della posizione che tende, all’opposto, a vedere nell’opera di Verna un nucleo germinale legato alla doppia congiuntura geometrico-analitica della sua pittura ; e a scorgere in quanto della sua opera è seguito non più che una movenza ulteriore, quasi unicamente giustificabile in un rapporto dialettico con quella premessa (e soltanto a patto, si può aggiungere, di modificare senza tradire o compromettere quelle ipotesi d’avvio).
Non può ormai, in altre parole, dirsi “ingenuo” (come sosteneva invece in due riprese, fra ’86 e ’87, uno dei maggiori esegeti dell’attitudine analitica di Verna, Filiberto Menna) “privilegiare la fase più recente in quanto più libera, più spontanea” rispetto a quella segnata dalle “precedenti intenzioni autoriflessive”. Ove, almeno, per “privilegiare” s’intenda l’atto di attribuire rango di piena autonomia a questo suo tempo ulteriore, nel quale certo convergono istanze lungamente preparate negli anni pregressi, ma appunto infine elaborate a un grado più maturo, e rese definitivamente libere da quei tanto di aspramente programmatico che può essere proprio di una ricerca ancora in crescita.
Ecco allora Aegizio: che, stando proprio sul confine delle due stagioni di Verna, guarda come da uno spalto a monte e a valle di sé, quanto è stato e quanto verrà. Recupera da una più antica esperienza quella sua struttura di forte evidenza geometrica, improntata alla figura di una piramide rovesciata. E in essa pare dichiarare di voler risolvere l’immagine: lo spazio, lucido e teso, imperiosamente asserito come spazio di superficie, è a destra e a sinistra scompartito in due metà equivalenti, all’interno delle quali le diagonali designano altro ordine, ripetendo nel loro punto di convergenza l’angolo che governa, e quasi ossessiona, tutta la composizione.
Pare asserire, alla prima, questo dipinto – ed anzi con un’intransigenza nuova, a fronte delle irregolarità, delle piccole frane sintattiche che avevano insidiato talora, come al margine di alcune opere degli anni e dei mesi precedenti, la griglia implacabile della geometria – una fede resistente nella spoglia verità dell’assioma. Ma poi, altro s’insinua nella sua trama, e ne corrompe, una ad una, tutte le altere certezze: altre e diverse voglie, altri sogni, per ora quasi segreti, appena confessati in quel disegno sfibrato, interrotto, e come fatto soltanto di tremula luce, che scandisce la geometria; e nella qualità del colore interno alla piramide, che si qualifica d’altra natura rispetto a quello, d’analogo timbro, che lo fiancheggia: come smosso nelle sue fibre profonde da una febbre, da un fremito, da un’irrequietezza indisponibile infine a celarsi del tutto nel suo manto unito. Un colore che riconquista, dopo tanto tempo, un suo peso e ingombro plastico, una sua durata e una capacità di memoria. Un suo corpo. Che si fa ‘figura’, di nuovo, stagliata contro un fondo.
Pittura, 1959. E’ quasi un incunabolo; ma già, per altro verso, una parola non generica pronunciata in un clima che cerca strade diverse dal coinvolgimento informale. Sono, ed egualmente saranno quelli immediatamente successivi, anni di semina e di avvistamenti, che Verna esperisce fra Firenze e Roma, tenendo quasi segreta la sua ricerca. Matura, fra il decennio che si chiude e il nuovo che si apre, alcune vocazioni che rimarranno, e alcune intolleranze ed estraneità anch’esse definitive.
Un colore, sceglie intanto – da subito – che si dia egemone, quasi tiranno della pagina pittorica. Seduttivo, talora, seppur per via radicalmente diversa dalla mimesi; e clamante, araldico: in Cromoracconto, ad esempio, ’59-’60. O, talvolta, più prossimo a una memoria di intrico, di natura: Tempera, Incontri. Ma sempre un colore sostenuto dal propriotimbro, non dalla propria consistenza materica. E sempre steso sulla pagina pittorica da un gesto che cerca l’automatismo breve e contratto della mano; che non conosce, o rifugge, l’ampiezza orgogliosa del braccio.
Dire, allora, che tanto di quel che verrà stava già lì, in quella sua lontana Pittura, può sembrare un azzardo, e non lo è. Basta riguardare certi pastelli (carte soprattutto, dunque, e felicissime; ma non solo) datati alla seconda metà degli anni Ottanta: guardare quel gesto breve che par ridursi a segno; quel restringersi attorno al cuore della pagina pittorica, e di lì muovere a cercare i suoi margini; quel colore che scava la sua natura ultima per rivelarsi infine unico vero nucleo germinale dell’immagine – per intendere come la vicenda di Verna sgorghi da quegli anni lontani. Per sapere, ancora, quanto incongruamente da quel tempo si presumerebbe di poter prescindere, ponendo l’abbrivio di tutto nella Geplante Malerei dei primi anni Settanta.
Nero-nero, 1977; Cadmium red 1978. Ancora due quadri di frontiera. E ancora resiste, nel secondo, quella banda di colore unito che segna in basso e a sinistra l’immagine. Nel mare di rosso che monta, dato dalla foga di un pennello che non nasconde i suoi franti, eccitati andamenti, la banda costruita ortogonalmente vincola al piano il colore; ne smagrisce i sogni; riconduce la sua avventura a quella superficie che – sola – può darsi ormai come luogo della pittura. Memoria di asseverazioni lontane, costretta ai margini della tela dalla vita diversa della pittura; retaggio ormai inerte di anni e vocazioni trascorse? Neppur questo, soltanto.
Verna scopre adesso che un argine – un ostacolo apparente imposto a quel più franco esplicarsi del segno e del colore che ora ha nelle mani – può incrementare il valore della nuova libertà. L’aver indagato sistematicamente, come ha fatto per lunghi anni, i singoli atti della pittura, il loro peso nell’economia dell’immagine, gli consente ora di calibrarne come istintivamente il ruolo, di conoscerne in anticipo la diversa risonanza che ciascuno di essi assumerà nell’opera. Così la geometria racchiude ancora nel suo andamento spezzato l’onda del nero che sale ad aggredire altro nero nel dipinto del 77; così, egualmente, il colore piatto e inemotivo della banda ortogonale in Cadmium red misura con ostinata precisione il tempo e lo spazio del dipinto. Dalla regola che è loro così visibilmente imposta, le due immagini traggono infine la liceità, e l’autorità, della loro trasgressione : di quanto, ed è ormai parte maggiore dell’opera, si dispone a contraddire l’assertività algida del proprio consistere.
Columbia, 1981. E’ un primo grande quadro fra quelli che riammettono, in apertura di decennio, il rischio dell’orizzonte. Quadro, al suo interno, violentemente in lotta: fra quell’azzurro intatto, tetragono alla vibrazione della luce e al minimo alito di vento, che occupa quasi per intero la tela; e la trepida, per una volta quasi affannata scrittura che giace in basso. Qui, in questa piccola zona franca del dipinto, che frana da destra a sinistra verso uno spessore sempre più esiguo, la pittura trova quasi per incanto una sua timida, raccolta inflessione di grazia. Le da per adesso diritto pieno di cittadinanza, nel campo geloso della pittura, quell’azzurro unito che la sovrasta: come per contrappasso. Ma, una volta apertasi il suo pertugio, quella diversa bellezza, più arrischiata ed impura, che questo dipinto ha trovato e costretto per ora ad un suo margine estremo, prenderà una confidenza nuova, un nuovo slancio.
E torneranno, negli anni a venire, per ampi cicli quegli accordi stremati e struggenti di rosa e di bianchi, di celesti e d’ocra che paiono, in uno spazio che è ancora per certo verso quello lucido e implacabile delle Archipitture di Licini, ripensare il tono di Morandi. Torneranno quelle lunghe strusciate del pennello: qualcosa di meno, sempre, di un gesto, di cui Verna continua a non condividere l’urgenza e la foga, lui che ha ogni volta pensato alla pittura come ad un atto lento e costruttivo, paziente, dolcissimo. Qualcosa, invece, come uno sciabordare, come il battere della risacca, come un colpo di vento sulle foglie secche.
Fino a un capolavoro come Shahrazad a metà degli anni Ottanta. Che quella gamma cromatica intuita da Columbia espande finalmente libera su tutta la superficie. Lo spazio, inondato di luce, accoglie ora ovunque il crepitio fitto dei segni: anch’essi, d’altronde intrisi, quasi grondanti di luce. Luce che, così condotta ad un suo diapason, sarà d’ora in avanti sovente il primo metro di forma per Verna: fino a sopire talvolta, a risucchiare entro la sua colma epifania, non solo la scrittura dei segni, ma il colore persino: annegato nel biancore abbacinato di Cielo barocco, di Schegge, del ’96, o ancora del recentissimo Pagine consentite.
Ultima alba oscura 1995, e Senza parole, 1996. Ecco la circolarità larga, sontuosa della ricerca di Verna dimostrarsi, in questi anni di perfetta maturità, finalmente appieno. Ecco convivere uno accanto all’altro istinti, passioni, modi diversi: senza che l’uno sfibri l’altro d’energia o d’autorevolezza. Hanno, ciascuno, un lungo asse paradigmatico alle spalle, fatto di progetti e gesti affini, che l’immagine di oggi hanno preparato: gli orizzonti ciechi, la perlacea consistenza del tono distesa quietamente sotto il manto unito del colore di Pittura 79, o ancora di Columbia propedeutici all’Ultima alba oscura. La spaziante densa e occlusa, la crepitante scrittura de II muro degli uccelli che tornerà, dieci anni più tardi, in Senza parole.
Tutto sboccia, oggi, nella pittura di Verna senza cercare preventive gerarchie e assicurazioni; senza intolleranze, e senza obblighi; senza scrivere in anticipo la propria storia, e senza che la vicenda che infine l’una o l’altra immagine diranno debba rispondere a un solo, monadico proposito. Così che la forma ultima di questa pittura può dirsi forse quella della memoria: memoria di chi avendo molto sondato, sperimentato, pensato, stringe adesso nelle mani, insieme e senza fatica, la sua saggezza e la sua libertà.