Associazione Mara Coccia, Roma, novembre 2011
A sfogliare il Catalogo ragionato relativo all’opera di Claudio Verna risulta evidente quel misterioso processo secondo il quale ciò che scorre nella cronaca quotidiana lo si ritrova di poi incastonato in capitoli nella storia dell’arte contemporanea. Il mistero si scioglie, naturalmente, all’altezza dei Maestri.
Il summenzionato catalogo dichiara anche l’intransigenza dell’artista, che distrugge cospicua parte dell’apprendistato poetico, sì che ciò che permane è anche “approvato”, vale a dire partecipa alla costituzione della coscienza dell’autore.
Allora, sfogliando il ben ragionato catalogo, si può agevolmente compitare il superamento del momento informale – esperienza decisiva dell’autocoscienza europea – e la sua fuoriuscita, ma in direzione propria, vale a dire fedele al valore assoluto e contemporaneo dell’esperienza pittorica. E’ questo un luogo fondativo per la storia dell’arte contemporanea. Rapido promemoria sintetico: mentre Giulio Paolini dal 1960 opera esercizi di analitica intorno all’ “oggetto” pittura, tela, superficie, colore; dal 1958 Robert Ryman istituisce una analitica di sistema a partire dal “colore” bianco, implicante supporto, stesure, materiali, gestualità, spatole, pennelli. Dal 1960 Claudio Verna riflette l’esperienza pittorica di Nicolas de Staël, vale a dire l’unicità valoriale del colore esperito nella concretezza della stesura e nella sua possibile fenomenologia. Anche questo passo sta sotto il segno dell’ “oggettivizzazione” dell’esperienza artistica, solo che la pittura viene assunta nel suo elemento essenziale, di colore/luce, lasciando cadere la tradizione disegnativa.
Il 1960 è l’anno dell’esposizione internazionale Monochrome Malerei, intorno alla quale fioriscono equivoci innumeri. C’è un breve testo di Verna intitolato Sul monocromo, una riflessione del 2009, credo, che è illuminante. Il transitare nel monocromo, lungi dal segnare un’intenzione di azzeramento, in Verna significò esplorazione esperienziale del potere e ampiezza di ogni singolo colore/luce. A suo modo una analiticità teorico-pratica, pardon, pratica-teorica.
Poi viene la serie delle stagioni pittoriche di Claudio Verna. Molte stagioni. Qui e ora godiamo di una stagione in corso, segnata da una superproduzione pratico-spirituale. Questo è il primo segnale da porre sul terreno. Per produzione siamo ben oltre la media di 20 quadri l’anno (calcolo statistico dell’autore). Giustifica il Maestro:” volevo fare più quadri, non certo per esigenze di mercato, ma perché volevo accelerare la ricerca, sperimentare con più velocità”. E’ quindi intorno alla dimensione tempo che bisogna indagare. Ecco allora un’osservazione pregnante:” La nuova-vecchia tecnica (cioè l’acrilico-ndr.) ha portato con sé, inevitabilmente, cambiamenti importanti. Essendo l’acrilico un pigmento che si diluisce con l’acqua, la pennellata ha meno importanza perché, asciugandosi tende a scomparire”; ed emergono quindi le velature, le sovrapposizioni di colori. Cosa significa tutto ciò? Che non è più leggibile, cioè che non fa più struttura, la lettura “stratigrafica”, il tempo che si deposita in diretta. Il risultato finale è un improvviso senza tempo. E l’immagine vuol divenire non più struttura ma apparizione.
In altro luogo – Come dipingo? – si chiede: quando termina un quadro? “Termina nel momento in cui tutto il lavoro fatto, gli sforzi, la fatica si annullano e l’opera sembra dipinta col massimo della naturalezza”. Squisita pronuncia di classicità, che avvicina spiritualmente Claudio Verna non tanto all’amato Nicolas de Staël, ma al molto stimato Henri Matisse.
Eppure si può – è corretto – istituire un parallelismo forte tra il percorso di de Staël e di Verna. In Nicolas abbiamo dapprima una pennellata/pittura che lavora sulla vertigine della commessura tra un corpo colore ed un altro (lo strumento non è propriamente il pennello ma la spatola): Lì spazio e tempo sprofondano insieme, si interrompe il respiro. Ma nell’ultima fase – la stagione di Antibes – il colore si diluisce al punto che la commessura si tramuta in brillìo da solarizzazione, quando l’occhio non mette più correttamente a fuoco per eccesso di intensità e di contrasto cromatico. Insomma, una transizione da immagine strutturata ad apparizione di un’immagine.
In Claudio viene invece ad emergenza la nozione di velatura, metrica classica della pittura italiana. Ma non – come nel Michelangelo della Sistina – come postuma correzione, la velatura qui è la grammatica stessa del dipingere, è aria colorata che si soprammette in una inesausta ricerca del punto di equilibrio tra colore e sua luce. Nel profondo pare leggere ancora attiva la lezione del monocromo, quella ricerca del valore di ogni colore risultato di una esperienza visiva poetica, insomma intensificata. Monocromia in quanto risultato di un attraversamento plurimo di attimi di luce.
La povera ed illusoria tecnologia dei pantoni e dei picsel poco può fare di fronte ad un simile muro cromatico: tutto slitta, scappa, si sottrae, si insorda. Ecco allora che la pittura oggi si incarica di dare una lezione di cultura alla società. L’immagine comunicativa nulla ha a che fare con una immagine pittorica, solo la visione diretta, attiva dell’opera la rispetta, la riconosce e quindi solo in presenza può avviarsi un tentativo di esperienza artistica.
Allora dobbiamo ringraziare Claudio Verna, e con lui una generazione di artisti, cui appartiene, che non solo ha aperto la porta del contemporaneo, ma è ancora qui a ricordarci che comunque sempre di arte si tratta, di null’altro che arte – come recita il vocabolario classico della cultura europea.