Claudio Olivieri, Claudio Verna. In parallelo
Catalogo doppia personale, Convento del Carmine, Marsala, 2013
La storia della pittura dell’ultimo mezzo secolo è, in tanta parte, una vicenda di equivoci: originati certo dalla sua presunta marginalità – tutta da verificare, del resto – rispetto a altri codici e pratiche in grado di intercettare e restituire con maggiore pregnanza i sommovimenti di un tempo rapidamente dilatato e accelerato nei suoi orizzonti economici, sociali e linguistici, così da rendere obsoleti (si dichiara) tecnologie, materiali e gestualità centrali sino alla metà inoltrata del Novecento. Ma tali fraintendimenti, in modo probabilmente più profondo e certamente più vitale, sono anche riconducibili all’interno stesso della pittura, almeno nei termini in cui la sua avventura si è andata svolgendo lungo il secolo scorso soprattutto coagulando, intorno alla struttura dell’astrazione e delle sue diverse opzioni semantiche, istanze tanto in apparenza irriducibili sul piano teorico quanto in realtà spesso ambivalenti su quello della operatività figurale. La linea di confine non segue tanto la distinzione, insieme semplificatrice e arbitraria, tra una astrazione “calda”, lirica, gestuale e materica da un lato, e una astrazione “fredda”, geometrica, razionale e programmatica dall’altro; e attraversa invece come una faglia irregolare – come una geografia di frattali – ambedue le aree, di volta in volta congiungendole o separandole, specchiandole l’una nell’altra magari mantenendo la distanza di sicurezza o allontanandole bruscamente. E’ noto ad esempio l’episodio della lunga pausa espositiva a cui si costrinse Barnett Newman all’indomani della sua mostra del 1951 in seguito al silenzio che la aveva accompagnata anche da parte degli esponenti dell’espressionismo astratto (a cui Newman era legato), che nelle grandi campiture monocrome avevano letto una negazione e un tradimento della propria maniera; ma è ugualmente noto come lo stesso artista americano vedesse nelle geometrie di Mondrian una ipotesi costruttiva agli antipodi della grandiosa drammaticità spirituale sottesa e pazientemente ricercata nelle opere di quegli anni, correggendo soltanto anni dopo il suo giudizio. Sono queste le due direttrici così spesso intrecciate nella storia dell’astrazione, in bilico tra ipotesi progettuale e mito dell’origine, tra declinazione sociale del linguaggio della pittura verso l’ambito degli oggetti e della architettura e l’irriducibilità della sua esperienza interiore.
E’ possibile che in questa ambiguità felicemente irrisolta per tutto il XX secolo risieda almeno parte della specificità della pittura e, insieme, della sua autonomia e della sua azione di resistenza: a patto però di individuare, nel filo rosso che raccorda queste tre nozioni – specificità, autonomia e resistenza -una attualità che giocoforza chiama in causa quanto delle istanze del Novecento sia stato consegnato – non come semplice tradizione o repertorio di stilemi, ma come problema aperto e necessario – alla temporalità storica scoccata anche prima (forse di un intero decennio) del nuovo millennio, quando cioè i parametri su cui si erano articolati modelli e teorie della modernità novecentesca furono divelti, e con essi anche l’ordine del discorso che aveva regolato la successione contraddittoria di avanguardie e neoavanguardie. In questo senso, l’opera di Claudio Olivieri e di Claudio Verna (per entrambi quasi mezzo secolo di attività, dalla seconda metà degli anni Sessanta a oggi) può essere assunta come paradigma esemplare. Se sono associati in questa mostra non è per la comunanza generazionale (Olivieri è nato nel ’34, Verna nel ’37), né per avere condiviso l’esperienza, del resto breve, della cosiddetta “pittura analitica” nella parte centrale degli anni Settanta, e neppure per l’amicizia che li lega e che li ha visti altre volte associati in diverse rassegne espositive; quanto piuttosto perché nel loro lavoro, e nel gioco di confronti, punteggiature e contrappunti che le loro opere permettono di imbastire, alcuni dei nodi precedentemente citati appaiono in tutta la loro evidenza: l’oscillazione tra memoria e utopia per esempio, o tra il rigore costruttivo della geometria e il pulsare (contratto, dilatato) del colore e della luce, l’accamparsi dello spazio e del tempo come entità che la pittura rende indisgiungibili, la tensione del quadro a farsi ambiente e a segnare, al contempo, uno specimen spirituale. Sono, questi, tutti temi cruciali variamente disseminati lungo il codice storico dell’astrazione, e diversamente declinati da Olivieri e Verna, talvolta addirittura da posizioni divaricate. Pure, che in questa palese differenza la critica abbia avanzato talvolta i medesimi riferimenti -Rothko, Newman, persino De Staèl, beninteso non come citazioni ma come problematiche istanze espressive – riconduce il confronto intorno alla irriducibilità della pittura, e alla verifica inesausta dei suoi margini e confini.
Ad uno sguardo retrospettivo, almeno alcuni tra quei termini sono già evidenti nelle posizioni radunate attorno alla esperienza della “pittura analitica” (o “pittura pittura”, o “nuova pittura”), quando cioè la riflessione intorno agli elementari del fare pittorico – l’iterazione combinatoria del segno e della superficie, la reciproca oggettivizzazione del processo realizzativo e percettivo, l’ipostatizzazione dei campi di colore e delle loro relazioni, la modulazione di una geometria basica – conteneva al suo interno le ambivalenze di cui si è detto in precedenza tra la dimensione programmatica e costruttiva e quella lirica, emozionale e simbolica1. Le affinità e i collegamenti della “pittura analitica” con tendenze genericamente affini quale support/surface in Francia e la Geplannte Malerei in Germania, e di tutte con le indicazioni’che la pittura statunitense aveva formulato sin dagli anni Cinquanta con Ad Reinhardt, e poi Robert Ryman e Agnes Martin, lasciavano infatti aperte non poche questioni; né aiutava in questo la volontà di definire il territorio di quelle nuove esperienze in un ambito linguistico differente tanto dalla pedagogia formale di un Bauhaus rifondato dopo i disastri della guerra in un lessico internazionale rivolto alle applicazioni del design e dell’architettura quanto da una mistica del colore e della geometria pura esemplare nei quadri neri di Reinhardt e naturalmente nelle opere di Barnett Newman. Entrambe le direzioni riformulavano del resto quelli che Rosalind Krauss ha definito come i paradigmi dell’arte astratta, il monocromo e la griglia2, in più di una occasione facendoli coincidere, attraversando con differenti accenti e intenzioni i quadrati rossi o neri di Malevic, i rettangoli di colori primari di Mondrian, i piani cromatici modulari di Rodcenko. Griglia e monocromo quindi ricorrono spesso nella breve stagione della “pittura analitica”, nelle opere di Giorgio Griffa ad esempio, o in quelle di Paolo Cetani, o di Carmengloria Morales, di Paolo Masi, di Riccardo Guarneri e di Pino Pinelli: sempre però con una modalità che intende salvaguardare la piena autonomia della pittura da ogni declinazione funzionale come da ogni allusione o immanenza simbolica. E’ un raggio di azione stretto, forse anche fragile, e non per la presunta debolezza teorica che l’accompagna in una cronologia dominata dall’Arte Povera e dal Concettuale a una estremità e dalla Transavanguardia dall’altra, quanto semmai per la provvisorietà di uno schieramento in cui le singole posizioni appaiono sin dall’inizio fortemente differenziate e per la collocazione precaria, in bilico su un crinale sottile, tra le direzioni potenziali racchiuse nell’astrazione geometrica. Ulteriore equivoco, la “pittura analitica” viene speso posta in relazione all’arte concettuale, come sua manifestazione indiretta o come risposta alla materializzazione dell’opera attraverso gli strumenti canonici della pittura, tela, pennelli, colore; mentre il suo riferimento più prossimo (e più stimolante) è semmai è il Minimalismo d’oltremanica, le strutture oggettuali di Donald Judd, di Cari Andre o di Sol LeWitt, prescindendo dal loro manifestarsi nello spazio tridimensionale anziché attraverso la superficie bidimensionale del supporto, a cui la accomuna non soltanto l’attenzione per gli elementi primari (anche nel Minimalismo, del resto, griglia e monocromo svolgono un ruolo fondamentale) ma soprattutto la componente processuale interna ai meccanismi percettivi dell’opera, e il suo porre a valore fondamentale l’esperienza del tempo .
Olivieri e Verna convergono nell’ambito della “pittura analitica” provenendo da direzioni diverse anche se in parte parallele: entrambi hanno esordito alla fine degli anni Cinquanta, in un clima culturale segnato da una egemonia dell’informale che andava però neutralizzandosi in una koinè tanto ampia quanto generica, e avevano individuato nell’articolazione del segno -altro elemento trasversale in quel decennio – la componente centrale della loro ricerca. Le affinità si arrestano qui, almeno per il momento, perché i dipinti di Verna rivelano una gestualità trattenuta e un segno-colore articolato mediante i movimenti della mano e del polso su tonalità ocra, gialle e arancio, al passaggio di decennio organizzate secondo strutture più salde e semplificate e campiture maggiormente omogenee; mentre quelli di Olivieri denunciano l’intenzione di condensare nel segno una dinamica dello spazio (oggettivata dalla diffusione a spruzzo del colore), secondo una lezione che aveva i suoi referenti proprio nell’ambiente artistico milanese (in cui Olivieri si forma), da Fontana a Grippa sino alle fonti futuriste. Intorno alla metà dei Sessanta, gli anni cioè del trionfo della Pop Art e poi delle poetiche oggettuali e dell’Arte Povera con il parallelo sconfinamento dei codici dell’opera a materiali e ambienti quotidiani, Olivieri e Verna hanno la lucidità di comprendere che la crisi dell’informale non è (come automaticamente si vorrebbe) la crisi della pittura, e che la sua attualità – la sua rifondazione, come si dirà spesso nella fase della “pittura analitica” – passa necessariamente per una indagine dei suoi processi depurata da ogni compromissione dimostrativa e da ogni intenzione strumentale.
E tuttavia questo processo di riduzione non intende (né per Verna, né per Olivieri e neppure per i loro compagni di strada del decennio dei Settanta) approdare a quel punto zero teorizzato da Roland Barthes per la scrittura e presto spostato anche alle arti visive in un orizzonte culturale ancora in gran parte egemonizzato per quanto concerne le scienze umane da semiotica e strutturalismo. Nonostante le inevitabili affinità con una ricerca del senso condotta l’ordine relazionale interno dell’opera, la pittura re-indagata nei suoi fonemi primari libera sempre quella ambiguità delle regole che è fondamento della sua libertà, a maggior ragione se geometria e colore vengono riconosciute quali elementi primari – l’ascissa e l’ordinata – delle regole stesse. Nelle riflessioni scritte che accompagnano la loro ‘opera senza mai proporsi come sua esegesi, Verna e Olivieri hanno del resto più volte riconosciuto questa irriducibilità della pittura. Così afferma il primo, ad esempio, nel 1976: “II discorso sulla pittura non ammette, per la sua stessa natura, confini precisi, trattandosi di un procedimento che è immerso nella dimensione del movimento e della trasformazione”; e il secondo, poco più tardi, nel 1983: “Certo è vero, la pittura si fonda su pochi immutabili elementi nella sua materialità, ma nella sua essenza tutto è più problematico. Che dire della irriducibilità del colore a qualsiasi quantificazione, del suo sfuggire alle teorizzazioni, del suo sempre mutevole rapporto con la luce?”
Seconda metà degli anni Sessanta, allora. Per Verna dopo le prime mostre personali è un periodo di silenzio espositivo, durante il quale strumenti e finalità della propria ricerca si chiariscono progressivamente spostando il segno dalla dimensione lirica alla geometria, e il colore da una evidenza ancora materica a campiture più uniformi. La superficie della tela viene organizzata e scandita per rettangoli, losanghe o bande di colore verticale che la attraversano sfuggendo tuttavia alla rigidità assiale, con una controllata oscillazione che altera, insieme alle geometrie, lo stesso processo percettivo dei piani cromatici invertendo di continuo quella dinamica di figura e sfondo cara, in quel periodo, ai teorici della Gestalt. In Doppio acrilico per esempio (1968) la componente assiale rafforzata dallo stretto rettangolo verticale delle due tele bianche accostate viene costantemente messa alla prova dal variare dello spessore delle strisce di colore e dal loro andamento irregolare. Ugualmente avviene in alcuni lavori a cavallo del decennio (Acrìlico, 1969) in cui l’assolutezza del monocromo viene significativamente intaccata dal flettersi – talvolta persino dell’intrecciarsi – delle bande di colore che la contornano da uno, due o quattro lati, rendendo in questo modo aperta la relazione abituale tra centro e margine sino al punto da vanificarla eleggendo le linee di confine a nuovo centro, sia pure provvisorio. Cos’è che oscilla dunque in queste opere, il colore (che in questo periodo ha il timbro netto e artificiale dell’acrilico), la geometria o entrambi?
In realtà il moto di permutazione investe tanto la superficie bidimensionale alternatemene restringendo o allargando i piani cromatici e i suoi intervalli, quanto i suoi valori di profondità che un intero pensiero critico (la flatness teorizzata da Clement Greenberg quale paradigma della modernità insieme alla nozione di allover) voleva espunta dalla progressione della pittura contemporanea. Lo stesso sbavare del colore, in particolare quando il bordo di un quadrato o di un rettangolo sembra registrare l’esaurirsi della carica del pennello come pure l’interruzione repentina del moto della mano che lo guida, nel mentre che mettono in atto una sovrapposizione almeno visiva delle zone campite di giallo, arancio, grigio o bianco alludono necessariamente a una spazialità tridimensionale: non finta naturalmente, cioè non rappresentata, ma nondimeno esperita nel farsi della pittura come una tra le sue possibilità.
E’ questa la componente processionale rivendicata tante volte dalla “pittura analitica”, anche se, piuttosto che sulla dinamica percettiva, l’accento andrebbe posto semmai su uno degli assiomi centrali del Novecento, il manifestarsi potente del tempo. La linea analitica dell’arte moderna così magistralmente ripercorsa da Filiberto Menna in un celebre e fortunato saggio è anche (o soprattutto) un percorso attraverso la fascinazione del tempo. Al di là delle eventuali analogie figurali, è questa consapevolezza a distinguere in profondità il lavoro di Verna tra i Sessanta e i Settanta dalla pittura hard edge statunitense (Frank Stella, Kenneth Noland, anche Morris Louis): una ambiguità tra azione e contemplazione (e il termine “ambiguo” non a caso viene apposto a diverse opere di questa fase come Grande ambiguo, Bianco ambiguo, Iterazione ambigua) che si impadronisce anche di modelli sperimentati quali le varianti sulla forma quadrata introdotte da Josef Albers sulla base di una grammatica Bauhaus adesso rivolta alla esplorazione delle proprietà simboliche del colore e della luce, e della struttura a griglia, che Verna (per esempio in A 88, del 1971) riprende e contemporaneamente trasgredisce variando il colore delle linee, il loro spessore e la forma stessa del modulo così che la struttura della griglia a uno sguardo appena prolungato tende a disgregarsi e a dissolversi. La ripetizione e l’iterazione del medesimo modello mettono in moto insomma un paesaggio di differenze, per riprendere il titolo di un testo emblematico di una intera fase della cultura del secondo Novecento con cui Gilles Deleuze indagava (La ripetizione e la differenza) il nodo tra inconscio e linguaggio.
Nel medesimo arco cronologico della metà degli anni Sessanta anche Olivieri ha individuato nel colore una dimensione specifica del tracciato segnico: in opere come Boreale (1969) o Thule (1970) la grande massa d’ombra che si leva al centro della superficie si sfrangia, ai lati, in rapidi e irregolari vettori di luce che attraversano la tela come diagrammi di una spazialità espansa, sconfinata. Quei segni vorticanti recano in sé la lezione dello spazialismo milanese, da Fontana a Grippa come detto prima, ma in questi dipinti che costituiscono il momento di chiarificazione del periodo precedente e insieme l’inizio della prima, e già per molti aspetti compiuta maturità, Olivieri mette a fuoco alcuni elementi strutturali dell’immagine pittorica che verranno poi ripresi nei decenni a venire: la tensione ascensionale del continuum di colore innanzitutto, una dimensione osmotica che coincide con la sostanza stessa della luce, e un moto pulviscolare che sembra scaturire dalla originarietà del tempo. Sembrano, questi, termini ellittici rispetto al processo di riduzione operato dalla “pittura analitica” privilegiando l’indagine autoriflessiva sul linguaggio e certo la posizione di Olivieri in quel contesto poteva apparire laterale, almeno per quanto riguarda l’assunzione di determinati fonemi di base propria di quella stagione. Ma in realtà l’identificazione piena, priva di remore e di esitazioni, tra colore e luce – tra azione del colore e azione della luce -implica necessariamente il riconoscimento dei dati elementari della pittura anche se le geometrie procedono per strutture dinamiche, asimmetriche e drammatiche, sia quando prevalgono strutture diagonali (sorprendente ripresentarsi, nel Novecento declinante, delle linee-forza futuriste) o abissali voragini d’ombre triangolari (come nel monumentale Infame, 1973), sia quando, e più frequentemente, la struttura ascendente del colore procede lasciando ai margini campi asimmetrici di irradiazione luminosa, sia, infine, quando l’organizzazione della superficie privilegia rettangoli o quadrati giustapposti, sempre di grandezza diseguale e dai confini irregolari pulsanti di energia: e qui il precipitare del colore nel suo grembo oscuro o il suo altalenante espandersi silenzioso giustificano il riferimento (che non è citazione) all’opera di Mark Rothko, soprattutto per la tensione del dipinto a farsi ambiente individuando, con la sua presenza, un confine liminare.
Se la geometria è quindi elusa, o, meglio, interpretata come forma cangiante e in divenire, anche la stesura monocroma si tende, si smorza e si increspa come un velario, al punto che qualcuno nega che, a rigore, per Olivieri si possa parlare di monocromo.
I grigi, i rossi ribassati e i blu come di cenere sedimentaria (“II Blu è un colore antinaturalistico, che perciò coabita col pensiero”, ha scritto una volta) che animano questa stagione intorno alla parte centrale dei Settanta sono del resto spesso attraversati da modulazioni che intensificano o variano queste cortine apparentemente uniformi, come intervalli delle frequenze di energia luminosa. Il loro ordito tendenzialmente verticale sembra apparentarli ai tagli di Fontana, e certo condivide con quella formula l’allusione a una spaziante infinita, di vertigine. Ma in questi dipinti (termine che invece si esiterebbe ad adoperare per il fondatore dello Spazialismo) la superficie e la profondità che le è correlata articolano un diverso ritmo avvolgente potenzialmente aperto in ogni direzione. Non a caso questi coaguli d’ombra e di luce scandiscono una metrica irregolare, tanto per la distanza che li separa che per ampiezza, timbro, densità: non si tratta, almeno per ora, di drammatizzare l’esperienza dello spazio (come pure avveniva in alcune opere immediatamente precedenti, e come in forma diversa avverrà anche in seguito) quanto semmai di assumere quale corpo della pittura le coordinate del silenzio e del vuoto, collocandosi per questa strada in quella vasta area della cultura del Novecento che soprattutto a partire dalla metà del secolo aveva cercato di elidere le contraddizioni tra attitudine contemplativa e tecnologia, tra Oriente e Occidente: una direttrice che partendo da alcune declinazioni dell’informale aveva trovato una rinnovata e per tanti aspetti radicalmente diversa riformulazione all’inizio degli anni Sessanta (in Italia in particolare nell’ambiente artistico milanese) coinvolgendo in chiave sperimentale anche la musica, il teatro e la performance.
Il rapido mutare del clima culturale alla fine di quel decennio doveva disperdere, insieme al rigore linguistico delle ricerche concettuali, anche le ipotesi “analitiche” in favore di un attraversamento disinvolto di codici, stili e formule in cui la pratica pittorica soprattutto della Transavaguardia – ma anche degli Anacronisti o dei Nuovi Nuovi – ritrovava una sua centralità, tanto effimera quanto fraintesa. Non è di certo questo mutare dell’orizzonte del gusto a condizionare le scelte di Verna e Olivieri al passaggio degli anni Ottanta, che procedono semmai per esplorazioni lungamente meditate, per intuizioni verificate a partire dai margini degli assiomi già indagati nelle loro potenzialità. In un’opera realizzata addirittura tra il 1971 e il 72, A 106, Verna aveva ulteriormente mosso e incurvato la bava di colore rosso che separa la larga campitura monocroma azzurra dalla fascia superiore, tra viola e indaco: una idea di confine, insieme percettiva e mentale, che rispetto ad altri dipinti di quel periodo erodeva in modo più evidente l’impianto della geometria, quasi a ricercare un diverso, mobile equilibrio tra la dimensione intellettuale e quella sensibile. Non sono fattori nuovi nell’economia complessiva della pittura di Verna, anzi, ne sono la sostanza forse più intima: e tuttavia a partire dalla metà dei Settanta (in modo palese probabilmente dal 1976) quadrati e rettangoli ingaggiano col colore una dialettica diversa, complice anche l’adozione dell’olio in vece dell’acrilico con tutte le sue possibilità di impasti, velature, sfumati e trasparenze. Quadrati e rettangoli quindi si sfaldano – o meglio: si sfalda la loro idealità – a misura che il ductus della pennellata diviene visibile per direzione e consistenza registrando la pressione del polso e della mano, il suo esitare o arrestarsi, i mutamenti di direzione, la reiterazione di un tracciato. Un’opera del 1980, La tenda di Gensis Khan, può rendere conto di questa rinnovata stagione: in apparenza la regolarità del quadrato della grande tela e dei due rettangoli che la spartiscono in verticale sembrano ribadire la continuità con i dipinti del periodo di poco precedente, ma lo zip (così definiva Newman la banda che articolava i piani delle sue composizioni) che traccia l’asse centrale segna un percorso incerto, provvisorio, come se il colore che lo risparmia e tra cui si fa strada potesse colmarlo saturando l’intera superficie; si irradia così, da quell’arancio, una luce diversa, fluorescente, un bagliore appena filtrato e, dinanzi a noi, dilagante. Non c’è in questo (lo stesso Verna lo ha chiarito in più di una occasione) un equivoco naturalistico, ma un ritrovato sentimento dell’ora e del luogo quello si: a patto che coincida con la pittura, che sia pittura la sua logica, il suo scheletro e il suo auscultare. Del resto, la (possibile) serie intitolata alle stagioni – // clamore dell’autunno, del 1983, e l’anno successivo // clamore dell’inverno e // clamore dell’estate: tre diversi formati, un rettangolo orizzontale il primo, un quadrato il secondo e un rettangolo verticale il terzo -non teme certo di generare quell’equivoco, al punto che ne // clamore dell’inverno la porzione di tela risparmiata in basso e percorsa da rapide pennellate al limite con la fonda massa di blu della zona superiore rimette in gioco, in quella attenzione al confine così propria al lavoro di Verna, una idea di orizzonte. Sono indicazioni ricorrenti in questi anni in cui la stesura diviene più fluida, lirica ed emozionata, anche se la tensione del gesto è sempre controllata e guidata dalla struttura intima del colore ricco, adesso, di passaggi più morbidi, di tonalità smorzate ma anche di accensioni improvvise.
Anche nei titoli: Paesaggio, Paesaggio di cadmio, Una sera ad Anversa, Studio di natura morta, Cleto barocco, Le pietre di Roma, il pretesto naturalistico è, alla lettera, un testo che precede la costruzione della pittura e che in essa poi si scioglie interamente.
E’ stato avanzato, per queste opere, il riferimento al Monet tardo delle Nymphèas, una delle grandi fonti della pittura moderna; ma in” realtà le fonti sono tante (e tutta la storia della pittura del Novecento lo dimostra) quanti i problemi che la modernità pone, e quanti sono gli sguardi con cui indaga se stessa attingendo al passato. Agli inizi degli Ottanta la tendenziale monocromia dell’opera di Olivieri si allenta così (anche se mai definitivamente, sino a oggi) in uno spettro luminoso dove al grigio e al blu si affiancano i verdi, i gialli, i rosa, i celesti accesi; allo stesso tempo il velario dei dipinti precedenti si anima di una nuova tensione ascensionale, come grandi colonne di luce che con un repentino fulgore segnino la direzione verticale che sommuove tutto lo spazio. Un sistema assiale talvolta diviso in due al suo interno, con due diversi colori -rosa e turchese, giallo e blu, ad esempio – a fronteggiarsi in un antagonismo che rivela, piuttosto che la loro duplicità, la comune origine dalla luce o dall’ombra primordiali. Quei rosa cangianti, quei gialli acidi, i viola dissonanti, sono stati accostati e con ragione alla grande pittura dei manieristi cinquecenteschi, a Pontormo quindi, Andrea del Sarto e a Beccafumi, con cui condividono insieme all’indubbia eleganza timbrica un accento di inquietudine ansiosa, di interrogazione irrisolta; a questi nomi potrebbe essere aggiunto quello di El Greco, non soltanto per l’analogo armamentario di colori ma per quel movimento serpentinato che sigla il suo misticismo tardorinascimentale già alle soglie della civiltà del barocco. Si tocca in questo punto uno dei nodi cruciali della pittura di Olivieri: la suggestione dei manieristi non elide infatti quella dell’ampia spazialità barocca, della sua dilatazione luminosa, di quella dinamica (ancora) di luce e ombra che nel Seicento diviene teatro della verità e della rivelazione. Inutile tirare in ballo altri nomi: accanto alla pittura, è fa grande architettura del tempo a mettere in moto quei meccanismi avvolgenti di drammatizzazione di uno spazio insieme fisico e spirituale, e se ha senso, per Olivieri, l’accostamento al barocco (come più volte è stato fatto) è perché la sua pittura è proprio questo: punctum in cui lo spazio si concentra e da cui si irradia, modularità sensibile dell’ambiente che agiamo, parete-diaframma che, anziché semplicemente delimitare l’architettura, la oltrepassa e la dissolve. Sono anche, in parte, i temi presenti nelle opere di Newman, di Rothko, dello stesso Fontana soprattutto nei grandi Ambienti spaziali a luce di Wood, a conferma di come la storia in genere, e la storia dell’arte in particolare, procedano per ritmi spiralici e non lineari, spesso attingendo con strumenti diversi ai medesimi archetipi immaginativi. Probabilmente non a caso a partire dagli anni Ottanta Olivieri appone più volte ai suoi dipinti titoli che richiamano esplicitamente le figure del mito classico: Aphrodite, Hyperione, Pandora, Prometeus, A Samotracia, Per Giasone, accostandoli ad altri che suggeriscono invece quella nozione di soglia – psichica, emozionale, concettuale – che la pittura intercetta e alimenta, Ulteriore, Inobliato, Incipit, Occiduo.
E’ lecito – al di là dei titoli riportati tanto per Olivieri quanto per Verna -parlare di serialità, una strategia dell’immagine che ha svolto una funzione centrale in tutta la pittura del Novecento? Il procedere per variazioni e spostamenti, non necessariamente programmatici o riconducibili a un modello teorico, era di certo più evidente nella seconda metà dei Sessanta e poi durante gli anni della “pittura analitica”, quando Olivieri adottava sovente un senza titolo che sembrava allontanare da sé qualsiasi malinteso descrittivo o quando Verna premetteva (dal 1970 al 73) la A di acrilico a una progressione numerica condotta sino alla cifra di 201 o, subito dopo, dichiarava – Archipittura, Pittura – una intenzione condotta sui principi elementari. La sequenzialità della serie ribadiva il carattere oggettuale dell’opera e la sua impersonalità: ma già dalla fase immediatamente successiva a questa struttura della ricerca si sostituisce un diverso elemento ciclico, a distanza ravvicinata o anche di molti anni, più aperto dunque, talvolta pesino con traiettorie divergenti, e soprattutto maggiormente libero e imprevedibile nell’atto di ritornare a istanze e problemi della pittura già affrontati nel passato più o meno recente ma non per questo esauriti nella loro vitalità figurale. Sotto diversi aspetti, questo procedere ciclico comune del resto a tanti grandi artisti del Novecento è il movimento attraverso il quale la pittura esibisce la propria attualità. Così, ad esempio in Verna, quei segni zigzaganti come alla ricerca del loro ordine e della loro necessità che in Alpha Centauro (1985-’86) seguono la rotta in una materia lattiginosa illuminata dai riverberi gialli, viola e e arancio, riprendono l’ordito di Baobab (1984) e già preparano l’addensarsi mobile tra pieno e vuoto, tra superficie e profondità che anima un’opera monumentale quale // volo degli uccelli (1986); i tralicci di colore sovrapposti o incrociati che cercano l’architettura segreta delle forme (non è cosi anche in Cézanne?) in Una storia che si ripete (1991) verificano in rosa e verde una partitura ritmica provata altre volte (come in Superficie nera, 1990) e ogni volta differente. Lo stesso motivo del monocromo e del quadrato ritorna, tra gli altri, in un dipinto del 1995, Ricognizione V (ma ancora a distanza di oltre dieci anni con Grande arancio del 2005), a ulteriore prova di come la pittura non sia la didascalia di una idea (come Verna ha detto più volte) ma una esperienza dove ogni mutamento – di colore, di gesto, di tempo – rifonda il senso del dipingere. Ugualmente per Olivieri: il dinamismo di neri, bianchi e gialli messo in scena nel grande formato orizzontale di Infame si ritrova a distanza di vent’anni (e con misure pressoché identiche) ne L’ombra della Pizia (1993) e poi in Agli estremi, del 1997; il movimento a svasare di Boreale è divenuto leitmotiv della produzione dell’ultimo quindicennio, e la stessa nettezza di geometrie e di contrasti di alcune prove degli anni Settanta si accampa con diversa diffusione di chiarore luminoso nei dipinti recenti.
Se questo avviene, se l’indagare della pittura cioè segue un andamento ciclico, è perché la ricerca sui suoi fondamenti non si è arrestata e ha assunto il divenire, l’alea, la rèverie quali dati elementari al pari della geometria. Anzi: poiché il colore (“II Quinto elemento” secondo una folgorante definizione di Olivieri) è insieme struttura e apparenza del mondo – del nostro essere nel mondo – il suo manifestarsi designerà una congetturale, mobile geografia di simboli, se non addirittura di archetipi. E’ il colore, per esempio, a conferire a quei segni a croce che Verna a più riprese utilizza sin dagli anni Settanta il loro valore di orientamento nel campo aperto e insidioso della superficie o a trasformarli in costellazioni vaganti nell’insondabile bellezza delle cose, cosi come è il colore a strutturare secondo dinamiche sempre diverse una forma elementare (archetipa?) quale il dittico, in anni più recenti adottato – due quadrati o due rettangoli – tanto in orizzontale quanto verticale come in Controluce (2011) con le presenza giustapposte e complementari del rosso e del bianco che nel medesimo tempo avanzano, sprofondano, si cercano e si respingono: nella sua Farbenlehere Goethe aveva ipotizzato una non dissimile dinamica della realtà del colore, prestandola poi al quartetto mirabile di personaggi de Le affinità elettive. E nelle opere di Olivieri quel ritornare costante sulla forma svasata, in alto e in basso, non riformula forse attraverso l’irradiarsi del colore gli archetipi verticali – l’albero, la colonna – e, insieme, quel simbolismo della coppa di cui ha scritto magistralmente Gilbert Durand? Non a caso in molti dipinti degli ultimi anni quella forma che si innalza solenne, talmente pregna dell’apparire del tempo sin quasi da abolirlo, appare (si è già detto) bipartita in due diverse gradazioni di saturazione luminosa – arancio, rosso, indaco o turchese – che ne evidenziano quella ambivalenza simbolica, chiaro e scuro, freddo e caldo, lontano e vicino così intrinseca alla nostra esperienza del colore e alla sua costruzione simbolica; in una prospettiva però di voragine e di abisso (con bellissima espressione Antonio Porta ha parlato, a proposito dei dipinti di Olivieri, “del vento australe che li attraversa”) che giustifica il riferimento al sublime e ai grandi romantici, Friedrich, con cui condivide il sentimento di distanza siderale, e Turner, per quei vortici che sono la forma dello spazio.
Colore e luce articolano quindi il senso di questa pittura, confutando quello smarrimento simbolico – la morte della luce, appunto – che un grande reazionario come Hans Sedlamyr faceva coincidere con il processo di secolarizzazione e quindi con la modernità. Al contrario, la rifrazione verso ciò che il sacro spesso ha preteso di rappresentare per vocazione esclusiva -l’attitudine contemplativa, l’allerta percettivo proprio dei mistici, la dilatazione del sentimento del tempo – il moderno lo ha focalizzato tramite luce e colore in una dimensione che è tanto fenomenica, in quanto agisce nella spazialità di cui abbiamo esperienza, quanto allusiva di una idealità immanente. E’ questa la sua specificità irriducibile. Certo, l’opera di Olivieri ha una solennità tale – non di rado una frontalità assiale – da suggerire il rimando alle pale d’altare o, meglio, alla millenaria tradizione delle icone bizantine dove però il fulgore incorruttibile dell’oro è stato sostituito dallo splendore smagliante dell’ombra.
Ma anche la pittura di Verna, in particolare nel corso dell’ultimo decennio, ha assunto una stesura dove il mutare e la ritmica del segno si sono via via allentate in favore di una texture come filtrata di controluce, maculata di riverberi, animata dalle profondità della superficie – il muro della pittura dentro cui volano tutti gli uccelli del mondo – da un moto di irradiazione lenta (avviene, nei dipinti di questa mostra, con Moderato con moto, del 2012 e con l’ultimo Lucifer, realizzato nel 2013), in un esito ipnotico e contemplativo che fa da contrappunto puntuale rispetto alla maniera di Olivieri. Rimane l’interrogativo se questa felicità del colore, questo trascolorare della luce non costituiscano un approdo, certo provvisorio, di quel fluttuare del vuoto che più volte lo sguardo del Novecento ha rivelato come l’apparizione della melanconia. Il bagliore del sole nero basso all’orizzonte che illumina le forme della geometria deposte inutilizzate ai piedi della figura allegorica incisa da Dùrer: è questo il lascito che il secolo trascorso consegna, con la pittura, al secolo nuovo?