Ritratti clandestini: Claudio Verna, “II Giornale”, Milano, 3 novembre 1978
Forse Claudio Verna è il più tipico e il più a «tutto tondo» fra i pittori che hanno cominciato ad avere successo nel 1970 e che lo hanno mantenuto ed ampliato in questo quasi decennio: basterebbe il secondo traguardo biennalino di adesso, oltre che la mostra personale alla Marlborough l’anno scorso: e poi la fraterna stima di artisti italiani e stranieri sulla breccia internazionale prima di lui, da Dorazio a Smith, il fatto di costituire, insieme con Battaglia, Olivieri, Guarneri, Gastini, Griffa (Raciti e Vago sarebbero i «cugini» della loro famiglia, non ortodossi, pittori d’avventura; ma Raciti, come scrissi più si straluna e si diversifica, più è lui) una linea operativa ben precisa, chiamata in varia guisa «neo pittura», autonomismo cromatico, anti-quadro del nuovo spazio visitato, serialismo qualitativo, esperienza del dato non acquisito e del far pittura via via, opera come antirealtà – ovviamente di una realtà che ha fatto il suo tempo – etc. etc.
Dico che Verna è tipico di questa categoria, prima di tutto umanamente: niente affatto di gesto tenorile, niente «artista» nell’orpello delle fantasie verbali, niente bruto o rinoceronte contro «ismi», niente diplomatico e permissivo dalla piattaforma di un «potere»; profondamente modesto per la coscienza lucida e sovente frustrante, della grande difficoltà dell’arte, assai più anziano e posato di quanto non comportano i suoi quarantun anni, che pure si presentano in uno specchio di semplicità quasi adolescente; meditativo al fondo e nei risultati di un pensiero scritto (esemplare il suo «credo d’artista» pubblicato nel 1976 dalle Edizioni Masnata-Genova), approssimativo per necessità dialettica nei colloqui a studio, davanti alle opere, che vuole, ovviamente, parlino per lui, siano le sue più convincenti parole; una intensa intelligenza filtrata da continua trepidazione, nel modo di guardare fisso in faccia l’interlocutore con quegli occhi ceruli che sembrano di un moro: e del resto, i suoi capelli sono nerissimi, un pelo fitto di barba gli fa metalliche le guance, un gestire, come nel tono della voce basso, a mani aperte, con le palme in alto.
L’artista ama riandare con la memoria a quando si cercava senza ancora trovarsi (una specie di nostalgia del momento avventuroso ed emotivo della sua prima gioventù) dal modo di dipingere di quell’oro-giallo vivente, pieno di mostri buoni, che si chiama Notari e che fu uno dei suoi primi amici di pennello a Foligno, alle mostre fiorentine coi Berti e Nativi e poi l’arrivo a Roma nel ’62, dove si “bloccò: era finito l’entusiasmo dell’adolescenza”.
Quegli anni, fino al Settanta furono di altri leoni, lui restò in ombra a dipingere forsennatamente, «come un asceta». Non che di lui si ignorasse esistenza e fatica; già i più disponibili a quel presente, i Menna, i Vivaldi se n’erano accorti, l’Editalia con la Volpi Orlandini, ninfa Egeria di quel quintessenziato circolo chiuso, lo prese nella mostra dei “cinque pittori” di Roma; Guarneri ed altri venivano a trovarlo, insomma, quando poi rientrò nel giro, era il momento in cui con l’arte povera si dichiarava la morte della pittura.
Se si potesse concentrare in una frase quasi da epitaffio ciò che Verna era, è stato ed è, da quel momento ad oggi, direi: a trent’anni dovette trovare tutta la teoria possibile per difendere la pittura da chi ne decretava la sua fine; a mano a mano che l’idea si fortificava in lui nell’altra faccia della luna dell’attualità visuale, il concetto del dipingere per riproporre da capo (da Cézanne, più che dalle «elaborazioni cubiste») l’«emozione corretta della regola», diventata l’antidoto contro i concettuali, i quali occupavano la faccia della luna più visibile: lui si atteneva al «mezzo» anche se non lo vedeva soltanto come fine, i concettuali prescindevano da qualunque mezzo di qualità, per dire ciò che loro occorreva senza intralci di vesti.
Verna si affannò con ottimo esito a dimostrare che la pittura esisteva ancora anche se riproposta su basi di colore puro, di anti-segno, di spazio che vive come scoperta del colore e non come contenitore; adesso non ha più né tempo né ragione di dimostrare qualcosa, ora il gesto del dipingere vuole che sia tutt’uno col meening. «La cultura, se c’è – mi dice – non deve essere esibita, ormai devo dipingere, mi sento maturo». Ma per la verità «dipingeva» anche prima e, anche prima, era maturo.