Il risarcimento lirico di Verna, in “Erotismo nell’arte astratta”, Celebes Editore, Roma, 1976
Già nel 70 la «poetica» di Verna è sufficientemente definita. La sua decisa uscita rimonta a pochi anni prima, fra 1967 e 1968, con personali soprattutto a Roma e a Firenze: un’uscita avallata intelligentemente da Cesare Vivaldi nel clima di quel neostrattismo sperimentale fra romano e fiorentino nel quale si affannava allora anche la Morales. Ma Verna aveva alle spalle esperienze, sia pure assai varie, di altri dieci anni (ritrovo le note di un incontro nel ’59 a Firenze, che mi davano prove d’ordine vagamente neoplastico negli anni ’57 e anche ’58, e poi di movimento più istintivo ed emotivo subito dopo).
Nel ’67 e ’68 Verna computa liberamente, ma con notevole rigore, lo spazio attraverso grandi bande colorate, strutturalmente chiare ed esplicite, ma lievemente flesse, così da interrompere ogni possibile interpretazione di strutturalismo ortogonale, e inducendo invece in un moto vagamente lirico. In fondo la struttura esplicita una presenza di valori cromatici, più che il contrario.
E questo è già l’annuncio di un principio essenziale per la vicenda creativa di Verna fino ad oggi. Fra ’68 e ’69 si matura una più concreta appropriazione della superfìcie come spazio cromatico puro, emarginando la presenza strutturale, in un ruolo in certo modo di servizio. Il ’69 vede un continuo affinamento, e una ricerca di precisa giustificazione dei rapporti fra il campo cromatico spaziale che occupa ormai saldamente la superficie e l’enunciato strutturale, che assume chiaramente il ruolo di un momento quasi d’incorniciamento, o di percorso a livello piuttosto segnico che non di entità formale compiuta. E poi del resto l’enunciato strutturale così emarginato è in luogo d’una sua sottile trasgressione d’effusione lirica, perché il colore puro lo invade, in affioramento o efflorescenza, o gesto incontenuto.
E su questi termini si fonda l’esperienza fondamentale del lavoro del 70, che la sala nella Biennale veneziana ha avuto il merito di portare tempestivamente alla ribalta, come allora la più densa e autentica proposizione di neopittura in una linea tipicamente italiana, postdoraziana, alla lontana postmagnelliana persino, se volete (anche se gli omaggi di Verna sono già allora e saranno poi più intellettuali e più fantastici a un tempo:da Fontana, a Licini).
A riscontrarle con le prove più recenti, quattro o cinque anni dopo, quelle tele appaiono concepite entro un ordine geometrico presupposto indubbiamente rigoroso, come nel ricorrere di forme rettangolari o quadrate, pur se appena affioranti in traccia entro la pienezza cromatica che assume nel dipinto il ruolo protagonista indiscusso. Alcuni anni dopo, a proposito di uno di quei suoi dipinti del ’70, A 56, Verna avvertiva:
Nel quadro A 56, il colore, un misto di grigio-azzurro-viola molto “colorato”, acquista la capacità di determinare uno spazio curvo, in questo caso “indotto” da quattro punti definiti geometricamente: sono i punti d’incontro dei semicerchi tracciati con centro gli angoli del quadro e raggio i lati dei quadro stesso. Manca praticamente l’immagine, e quindi il «racconto» come ad esempio viene ancora espresso dall’astrattismo storico italiano (e non), in cui spesso il colore è supporto della geometria. Nel mio caso, semmai, è vero il contrario: infatti, quando e ‘è, la geometria è al servizio del colore e delle sue possibilità. I quattro punti che orientano il quadro, identificano lo spazio, lo catturano, sottintendono un ordine razionale a quello che si presenta come uno spazio anonimo (seppure già privilegiato mentalmente, estrapolato dal supporto fisico della tela tramite un bordo dipinto con lo stesso colore della superficie ma come in negativo, cioè con colore magro).
E aggiungeva, ad avvalorare il senso di ipotesi assoluta, intrasferibile, della sua intuizione di validità spaziale del cromatismo puro:
Ho provato a progettare questo quadro, meglio a trasporre questo problema nello spazio reale, se si vuole a sperimentarlo con un’altra tecnica: i quattro punti focali del quadro li ho segnati su una parete quadrata dei mio studio, coinvolgendo nell’operazione quanto era nella stanza per non alterarne il significato. Il risultato è stato che, mentre si perdeva l’efficacia dell'”impatto percettivo”, la mancanza di colore faceva sì che lo spazio non si alterasse in alcun modo. Rimaneva il senso di un’operazione detta e non realizzatasi (Verna. Galleria La Polena, Genova. 11 genn. – 6 febbr. 1973).
Cioè il realizzarsi è possibile per Verna soltanto entro la pittura, la cui capacità d’impatto percettivo è nell’indurre entro una pura spazialità lirica, densa di tensioni intime, stratificata, aperta: che è il traguardo al quale Verna aspirava e tuttora aspira. Dichiarando che il dipinto è per lui un momento d’un processo, lo investe tuttavia d’una capacità unica di totale referenziale. Campo dell’esperienza, campo del processo, questo è interno all’essere pittura, al suo crescere processuale: non è né «racconto», né rapporto esterno.
La problematica è dunque interna al territorio medesimo del dipinto, che è pura comunicazione oggettivata, nella quale, in particolare a livello dell’inizio degli anni Settanta, per Verna conta una sottile dialettica fra campo cromatico puro della superficie, struttura sottintesa, ed effusione sensibile che oltre quella continuamente trapela. Ora queste sottili alterazioni sensibili delle residue emergenze strutturali sono in funzione d’una dichiarazione ultimativa di non-assolutezza della superficie stessa, che non si arroghi in ruoli d’assoluto, né peggio di definizioni formali elementari (il quadrato, o altro), ma valga proprio come campo d’occupazione cromatica pura, sottilmente tesa e inquieta, benché univoca, intimamente contesta di una problematica luminosa, anziché piattamente «locale». Insomma l’emergenza strutturale trasgressa è il segno della volontà di mantenersi al limite di una precarietà lirica effusivo-percettiva, che permetta di evitare condizioni di arresto su elementi singoli: o il piano cromatico, o l’elemento strutturale.
Nel 1970 stesso, altrove, Verna avvertiva di aver studiato «l’ambiguità che poi domina il nostro rapporto quotidiano con le cose e con gli uomini». Precisando subito:
Pittoricamente penso di realizzarlo con variazioni minime, movimenti quasi impercettibili dello spazio e del colore, rimettendo in discussione ogni valore, infine la mia stessa esperienza [Claudio Verna, Italian Pavilion, XXXV Venice Biennale, Galleria Martano I due, Torino].
E insomma il cromatismo puro di Verna s’annunciava già allora, nella sottile trama delle sue interne tensioni, come l’emblematica probabile di una totalità psicologica del nostro consistere esistenziale attuale.
Il lavoro subito seguente, in particolare fino al ’73, è nella computazione del rapporto fra presenzialità cromatica pura e ordito strutturale implicito, trasgredito liricamente, eppure emergente quale logica dialetticamente attiva nel processo di configurazione dell’immagine-superficie totale. La presenzialità cromatica si esplica in un affinamento estremo, persino preziosistico a volte, in una squisitezza insinuante della pittura goduta pienamente per tale. L’attenzione è portata al segno, alla trama pittorica, al pigmento con una dedizione totale, con una piena partecipazione lirico-effusiva, ma con una decisa e lucida volontà di controllo logico dei processi.
Il suo lirismo è laico, non sentimentale, eppure è lirismo indubbio per una tensione del sentimento-sensibilità che presiede alla qualità del valore cromatico totale, onnicomprensivo.
Un’altra nota di Verna, molto recente, indica bene il tempo percettivo dell’interna dinamica di tale campo valore cromatico totale, onnicomprensivo:
(Archipittura, 1975)
Finito il quadro, al primo sguardo l’effetto è quello di una grata simmetrica dì bande colorate e di 25 quadrati. Immediatamente dopo, si percepisce la diversa colorazione e larghezza delle bande, mentre il fondo acquista la sua posizione centrale, ponendosi come filtro e termine di profondità rispetto alle bande. A questo punto, l’occhio si è fatto più attento, più critico, e mentre va alla ricerca della logica che ha informato il quadro per «impossessarsene», scopre che l’apparente simmetria dell’immagine è falsata dalla diversa larghezza e posizione delle bande, che hanno trasformato i 25 quadrati in 25 rettangoli tutti diversi tra loro. Inoltre, la larghezza dei rettangoli è ulteriormente falsata dalla varia intensità luminosa delle bande stesse, che a volte bloccano il rettangolo, restringendolo otticamente, a volte lo allargano quando le bande stesse hanno poca incidenza. In altre parole, aumentando il tempo di lettura, entra in crisi l’apparenza razionale e rassicurante del quadro con l’affermarsi del processo che costituisce il senso stesso della pittura. La dimensione del quadro (cm 200×200) è ampia, al limite della percezione da una distanza media, per non privilegiare alcun elemento del dipinto; infatti, lo stesso quadro ridotto a 70 cm di lato evidenzierebbe inevitabilmente l’aspetto geometrico del dipinto non consentendo il recupero ottimo del fondo come medium. La tela è di trama abbastanza grossa, per consentire alla pennellata di sfrangiarsi durante il suo correre sulla superficie e perdere gli eventuali residui materici, come potrebbe avvenire su una tela liscia.
E conclude:
Preferisco di gran lunga la pennellata ad altri mezzi, perché cerco di dare la sensazione di un colore che penetra, viene spinto dentro la tela e quindi propone i suoi effetti al di qua o al di là del medium. Uso i colori ad olio per la loro duttilità, la loro resistenza e la loro grande varietà [Note informative: Claudio Verna, La Bertesca, Genova, Milano, Dusseldorf, maggio 1975].
Fra ’74 e ’75 intanto Verna ha impostato un momento nuovo di ricerca, cercando di superare quella tal seduttività cromatica alla quale era pervenuto, in una asciuttezza diversa, privilegiando in certo modo alcuni elementi, come ampie fasce, oppure singolari strutture chiasmiche su un fondo appunto in funzione di medium, cioè di pura entità spaziale accogliente. Gli elementi hanno un risalto cromatico di accento timbrico, piuttosto asciutto che non appunto inteso in modi di seduttività sensibile, e abbastanza netto nelle profilature. In certo modo sul campo operano elementi strutturali: la loro strutturalità tuttavia non è plastica, non è formale, ma unicamente cromatica: sono in un certo modo valori cromatici puri timbricamente risaltanti. La pittura pura di Verna va così acquistando una nuova solidità, e si apre probabilmente ad una sua nuova stagione. Nel contesto incerto e spesso ambiguo della nuova pittura, di Verna si può dire che certo non pone in dubbio la pittura come assoluto valore di proposizione cromatica, non la revoca nella rastremazione di un segno che stia per il tutto (un tutto non rinunciato, ma considerato ridondante in una presenza sensibile diretta), come nel caso di Griffa o di Gastini. Né d’altra parte intende recuperare il gesto del far pittura in un’immediatezza neoinformale. Per Verna conta un calibrato e ordinato accumulo di esperienza: fatta di arricchimento pittorico, di raggiungimento infine, anzi, di una «piena pittura», che equivale all’emblematica dell’esperienza stessa dell’esistenzialità quotidiana esaltata in un suo “analogo” lirico.