Claudio Verna, catalogo personale Galleria Martano/Due, Torino, novembre 1970
La semplicità estrema della proposta (e dei mezzi) non si spiega a parole. E’ il merito primo: una forma di concentrazione, una richiesta di attenzione che deve essere portata esclusivamente sugli organismi pittorici. L’essenzialità di Verna non sopporta descrizioni, dilungamenti in interpretazioni metafisiche e fallaci. I significati sono nella pittura che rifiuta anche, nella propria costituzione, di fenomenizzarsi come somma di separati incidenti successivi. Essi, se mai, vengono unificati in uno spazio oggettivamente definito in cui il quadro stesso (l’oggetto) ha di per sé un valore relativo, mentre si giustifica invece nella serialità modulare di quello spazio. Ed è nella serialità che il percorso si definisce e si individua, chiara, la ragione di un’intestardita, nonostante tutto, fiducia nella pittura.
Spazio, dunque, come matrice, luogo di azione, di sperimentazione dei segni e delle incidenze cromatiche. Spazio come testimonianza di un comportamento in unità di tempo, di luogo e di azione, argomentazione dialettica di proposte e controproposte per una percezione non ambigua. Ciò che si è, è ciò che si fa e ciò che si fa è ciò che si vede.
Saremmo forse ancora al PROLOGO IN TEATRO? Man kommt zu schaun, man wili am liebsten sehn. Il Direttore avrebbe la sua ragione contro le ragioni dei Poeta? (Questa parola può apparire sospetta, ma la uso solo come riferimento al personaggio che è l’antagonista, la ragione umana dei PROLOGO).
E però non credo, nel caso di Verna, che per lui il Direttore possa rappresentare l’attrazione maggiore, l’invito ad un non qualificato spettacolo, ad un divertissement decadente. In definitiva, la sconfitta delle ragioni di una poetica.
Al contrario, la fredda e lucida determinazione, il controllo continuo e la semplificazione dei mezzi, nascono dalla considerazione particolare delle proprie necessità e possibilità di comunicazione ancora ritenute importanti, efficienti, trasmissibili, quindi, attraverso una appropriata struttura linguistica. Ed è l’operazione che va conducendo con assoluta coerenza.
Perciò sarebbe, in un rivisitato primo Faust, dalla parte del Poeta: «Wer ruft das eìnzelne zur aligemeinen Weìhe, – Wo es in herrlichen Akkorden schlàgt?». Ma con intendimento, senza ansiosi ripensamenti protoromantici che, caso mai, proprio da quella determinazione e da quella lucidità verrebbero sconfitti. E, certo, con minore fiducia nell’universale e con maggiore aderenza alla materialità concreta dei procedimento, senza empiti di distacchi contemplativi. «II capriccio dell’arte e non l’arte del capriccio» ha scritto di lui Dorazio. E’ definizione pertinente se per capriccio intendiamo non un’arbitrarietà di collocazioni, ma capacità di invenzione continua di inedite situazioni pittoriche, di trasposizione, appunto, in «herrlichen Akkorden» dei dati primari, semplici ma niente affatto poveri, della visione.
Verna opera infatti su quantità concrete, dosate, di materiali, di segni, di illuminazioni. Il suo procedimento manifesta un’aderenza totale alla realtà, demistifica ogni trascendenza e quindi ogni voluta stranezza di evento e di comportamento. Egli sa (ha capito) che non i mutamenti dei materiali, la sostituzione del colore con la carta o con la latta, rinnovano la struttura linguistica, ma un determinato impiego, in una determinata quantità e qualità di materiali che, per loro costituzione, possono essere anche quelli tradizionali. Egli sa che il significato di una propria contemporaneità si definisce per mezzo di un personale e rischioso contributo e non attraverso un subordinato accattonaggio.
In sostanza, è al di fuori degli equivoci degli esperimenti decadenti e ritrova, nella modernità della struttura, la regola d’oro della proiezione mentale, la possibilità di definizione precisa dei progetto. Le serie di quadri sono, ripeto, luoghi di azione e di sperimentazione, non certo definiti da un’inconscia gestualità, ma proporzionalmente e, direi, matematicamente precisati secondo quantità e qualità diverse di materiali, secondo interruzioni otticamente calcolate dell’intensità di campo. Verna ritrova e ripropone la concettualità più profonda di un «disegno», quanto mai necessaria, oggi, per ristabilire, se non il capriccio, certo quell’artificio a cui, etimologicamente, sentiamo di dover restar fedeli.