Volker W. Feierabend – Quando hai iniziato a dipingere eri figurativo o hai iniziato subito astratto?
Claudio Verna – Ho scoperto la pittura o, meglio, la pittura ha conquistato me, a sedici anni, in una provincia che praticamente ignorava l’arte moderna: non potevo che essere figurativo.
Dipingere paesaggi o fare il ritratto a qualche amico, era l’unica possibilità che mi si offriva. Poi ho scovato imprevisti compagni di strada e insieme siamo andati a caccia di ogni informazione possibile. Ricordo i primi incontri e i primi viaggi come vere e proprie scoperte. Fondamentalmente fu, nel 1954, la mia prima visita alla Biennale di Venezia dove, di fatto, scoprii l’arte contemporanea: un universo affascinante e misterioso.
Ma dovevano passare ancora un paio di anni perché, trasferitomi a Firenze, incontrassi un vero ambiente artistico e pittori in grado di introdurmi nel dibattito che allora verteva ancora sulla contrapposizione tra astratto e figurativo (dibattito che oggi appare quasi patetico): non ebbi alcun dubbio e abbracciai la pittura astratta con tutto l’entusiasmo di cui ero capace.
V.W.F. – Quali sono gli artisti che ammiravi o che comunque hanno influenzato il tuo lavoro?
C.V. – Non ti farò l’elenco degli artisti che ammiravo, perché sarebbe comunque incompleto, ma solo di quelli che ho veramente amato, al di là della loro fama o importanza.
Ed ecco Vinicio Berti, un pittore fiorentino “contro” tutto e tutti, capace di suscitare passioni e odi feroci, ma, al fondo, generoso come pochi; Lucio Fontana, che mi riceveva nel suo studio quando andavo a Milano e chiedeva con naturalezza il mio parere su opere che mi toglievano il fiato; Fausto Melotti, ancora pressoché ignorato dalla critica ma carico di prestigio per molti di noi giovani; Wols, che naturalmente non ho conosciuto, inquieto, drammatico, geniale; Osvaldo Licini, un poeta straordinario che mi fece dono di una amicizia finita troppo presto; e ancora Klee, Malevic, De Chirico.
Ma, per rimanere ai primi anni della mia formazione, due sono stati gli artisti che più mi hanno influenzato: Matisse e De Stael, ovvero l’emozione del colore.
Ho più volte detto che mi definisco pittore perché penso di potermi esprimere soltanto con il colore: e pochi artisti hanno raggiunto i vertici toccati da questi due pittori. Conoscere l’opera di Matisse non era difficile perché lo ospitavano i musei di tutto il mondo, ma De Stael fu per me una vera scoperta, nel 1960, quando vidi una sua grande antologica al Museo d’arte moderna di Torino. Nel corso degli anni il mio giudizio su De Stael è naturalmente cambiato, ma l’emozione che provai alla sua mostra resta tra i miei ricordi più intensi.
Più tardi, avrei conosciuto altri artisti straordinari capaci di rimettere in gioco le mie convinzioni e di stimolare il mio lavoro a nuove sfide, come il grandissimo Rothko, Ad Reinhardt, Dorazio, Afro, Gorky, Morris Louis, Graubner, Ryman. Ma questa è un’altra storia.
V.W.F. – In che posizione ti collochi nei confronti della pittura analitica e cosa significa per te “pittura analitica”.
C.V. – Penso che quella che oggi viene definita “pittura analitica” rappresenti un momento estremamente importante nel dibattito sull’arte degli ultimi decenni. Ma con qualche chiarimento.
Io ricordo benissimo il disagio profondo che provavo quando la pittura, nella seconda metà degli anni ’60, cominciò ad essere negata da molti per un vero e proprio pre-giudizio: veniva definita morta, superata, lunga eco della tradizione, inutile e via con altre amenità del genere.
Io invece, dopo un lungo periodo in cui avevo messo in dubbio ogni certezza, confrontandomi con tutte le altre espressioni dell’arte che allora si affermavano, ero giunto alla conclusine che la pittura aveva in sé tutte le potenzialità per essere ancora, e anzi più di prima, una grande e insostituibile forma d’arte.
Tutte le obiezioni che le venivano mosse riguardavano un’idea della pittura intesa come un codice fisso, stabilito nel tempo, e quindi inevitabilmente destinato a diventare obsoleto; mentre invece la pittura, per esistere, va ripensata continuamente. (Va fatta e non usata).
Ecco, l’impegno mio e dei miei compagni di strada era proprio quello di ristudiarne la storia, gli elementi fondanti, i procedimenti, i rischi, il rapporto con la civiltà delle immagini e le altre esperienze, infine la sua ricchezza e la sua libertà. Ognuno con la sua sensibilità, con il suo personale talento. Per questo non era facile, neppure per la critica più attenta, trovare denominatori comuni, che pure c’erano, né una definizione univoca. Ma, secondo me, questo ribollire di esperienze diverse, anziché un limite, era la sua vera forza. All’interno di quella situazione agivano anime diverse, artisti che con il passare degli anni avrebbero trovato la loro strada e precisato i personali percorsi artistici.
In questo senso accetto la definizione di “pittura analitica” e di farne parte.
Quando invece si pretende di codificare in senso stretto procedimenti e regole, replicando così vecchi equivoci, il mio dissenso diventa radicale. Ma oggi, anche alla luce di letture critiche più serene ed approfondite del fenomeno, mi pare che questo rischio non esista più.
V.W.F. – Honnef ha scritto che Verna non è un pittore analitico ma un peinteur.
C.V. – Rispetto le opinioni di tutti, ma non mi riconosco in questa definizione.
V.W.F. – Come sei venuto a contatto con la Germania? Come sei stato accolto? Come sono stati i contatti con la Germania?
C.V. – Il mio contatto con la Germania avvenne nel modo più semplice e naturale, nel 1970, mentre esponevo con una sala personale alla Biennale di Venezia. Ero praticamente un pittore inedito, ma il titolare della Galerie M di Bochum si interessò al mio lavoro e l’anno successivo mi inserì in una splendida pubblicazione, “Neue Konkrete Kunst” con un testo critico di Maurizio Fagiolo. Gli italiani presenti in quel libro erano Calderara, Castellani, Fontana e il sottoscritto. Una soddisfazione enorme.
Seguirono, nel 1972, una personale alla Galerie M e quindi la partecipazione a “Prospect ‘73”, tenutasi alla Kunsthalle di Düsseldorf.
In questa città tornai ancora nel 1976 con una personale alla Galleria La Bertesca. I rapporti con gli artisti che conobbi, da Gaul a Erben, furono all’insegna della più squisita simpatia, come pure resta indimenticabile una visita allo studio di Richter.
Sono tornato in Germania più volte in occasione delle mostre di Kassel o di altre rassegne internazionali, stabilendo un rapporto di collaborazione con la Frankfurter Westend Galerie, dove ho allestito “personali” nel 1989 e nel 1997, accolto con stima e rispetto. Ne ho un bellissimo ricordo.
V.W.F. – Pensi che la pittura analitica discenda dagli anni cinquanta, dall’arte Colorfield o che si sia sviluppata senza aver niente a che fare con questa?
C.V. – Nessuno è figlio di nessuno, e neppure la pittura analitica.
Ma va detto che l’informazione oggi è talmente straripante e soprattutto vissuta in tempo reale, che riesce difficile ricordare come nei decenni scorsi non fosse così. Negli anni ’60 dominava la pop art ma forse non tutti sanno che la minimal art nacque in quello stesso periodo. Quanti allora ne erano al corrente in Europa? Eppure esperienze simili si conducevano anche da noi.
Gli artisti hanno le antenne, canali di contatti insospettabili, ma questi allora erano pur sempre limitati. Mi sembra più giusto pensare che certe situazioni nascano autonomamente e solo in un secondo tempo si stabiliscano relazioni e rapporti. Questo vale anche per le esperienze riconducibili alla pittura analitica avviate pressoché contemporaneamente in Italia, Francia e Germania.
V.W.F. – Nel tuo lavoro, pur nella continuità, ci sono tanti cambiamenti, vere e proprie fasi: come le dividi e come avvengono i cambiamenti?
C.V. – Ecco una domanda a cui non è facile rispondere, ma provo ugualmente, cominciando con un caso particolare.
Nel 2007 feci una mostra antologica al Museo nazionale d’Abruzzo, all’Aquila. Scelti i quadri, provai ad allestire la mostra disponendo i quadri secondo un preciso ordine cronologico. Non funzionava!
Allora presi coraggio e accostai tra loro opere di anni differenti, sulla base del dialogo che si stabiliva tra quadro e quadro, del colore che determinava l’immagine. Funzionava!
Era la conferma di un mio profondo convincimento. Il codice che governa il mio lavoro è il colore, la sua capacità di assumere i valori massimi della saturazione, della sua potenza luminosa. Per raggiungere questo risultato, le modalità possono essere le più diverse, come pure cambiano i punti di vista e perfino le tecniche.
Passare dai colori ad olio agli acrilici, per esempio, determina un impatto visivo apparentemente molto diverso: la pennellata ad olio stesa sulla tela rimane esattamente come è stata data, mentre il colore acrilico, essendo un pigmento che si diluisce con l’acqua, quando si asciuga cambia, perde spessore e la pennellata tende a smorzarsi come segno. In questo secondo caso avranno importanza maggiore le marezzature, le trasparenze, le sovrapposizioni. Tutto cambia, ma il colore rimane comunque il protagonista assoluto, con la sua capacità di determinare lo spazio e suscitare emozione.
Il problema della tecnica, per quanto importante, non è comunque quello centrale. Fondamentale, per me, è il tentativo continuo di far coesistere, anzi di far diventare una cosa sola, le due spinte che animano la mia ricerca: il progetto e la passione, il controllo e l’abbandono, l’istinto e la ragione.
Ora il mio percorso per sommi capi.
Dopo una prima e breve fase informale, passai in solitudine diversi anni a cercare la mia strada, sperimentando senza sosta, sbagliando, ricominciando. Verso la fine degli anni ’60, quando mi convinsi definitivamente delle ragioni “antiche ed irrinunciabili” della pittura, tutti i miei sforzi si concentrarono nello studio dei valori fondanti del dipingere, delle straordinarie potenzialità del colore.
Nasceva così la fase del mio lavoro riconducibile alla pittura-pittura, oggi pittura analitica, in cui il progetto era per così dire esibito, messo in primo piano, anche se il colore rimaneva pur sempre il cardine di tutto. In questa fase i colori acrilici, duri, quasi industriali, stesi uniformemente, mi erano di grande aiuto. Non era, come scrisse qualcuno, un azzeramento della pittura, ma invece un inizio, un ricominciare.
Poi, lentamente, nella seconda metà degli anni ’70, tornarono a far valere i loro diritti altre componenti, altri valori come il segno, la pennellata, l’improvvisazione, il caso, perfino l’inconscio: ma sempre riferibili, funzionali ai temi a me cari come l’ambiguità della visione, il mistero del colore, la virtualità dello spazio. Il tutto sempre e comunque nell’ambito di una progettualità ora come sottesa, più segreta quasi nascosta.
Da allora, ripresi i colori ad olio, mi sono mosso su questo crinale, in cui l’unico metro possibile è la creatività, cioè la capacità di trovare un equilibrio tra le varie componenti dell’opera. Quando un elemento, il controllo o l’emozione, prevarica sull’altro, il quadro prende derive sbagliate e non mi somiglia più.
Ho messo in gioco, in questo, tutto me stesso e qualche volta sono stato costretto a brusche sterzate, in un azzardo continuo. Costante, e inevitabile per me , l’ancoraggio al colore come perno di tutta la mia opera.
Le differenze, che certamente ci sono, fanno parte di questo andamento a spirale , sempre diverso ma insieme tangente a tutte le tappe del mio percorso.
V.W.F. – Puoi fare un esempio di una singola fase?
C.V. – Naturalmente scelgo la fase attuale, quella che mi intriga di più. Nel 2001 sono tornato ai colori acrilici che peraltro sono diversissimi, molto più pastosi di quelli che usavo trenta anni prima. Cercavo nuovi stimoli, volevo accelerare la mia ricerca arrivando prima alla conclusione del quadro: ma soprattutto, quasi con mia sorpresa, mi sono reso conto che stavo rimettendo in discussione opere lontanissime nel tempo. Non parlerei di rivisitazioni, quanto piuttosto di quell’andamento a spirale di cui parlavo prima.
Il colore, sostanzialmente monocromo degli anni ’70, ha ceduto il passo a tonalità molto complesse, risultato di numerosi passaggi di colori molto diversi tra loro. Mi piace pensare che queste superfici contengano in sé tutte le immagini possibili e che la luce sia il vero e unico protagonista.
Piccoli segni, croci o bande laterali hanno il compito di identificare questo spazio luminoso, con curiose, e all’inizio impreviste anche per me, somiglianze con i quadri dei primi anni ’70.
Mi sono impegnato in questa nuova avventura con leggerezza ed entusiasmo, convinto che rischi, contraddizioni e azzardi costituiscono, alla fine, i cardini della mia vera coerenza.
V.W.F. – Cosa pensi dell’arte di oggi così veloce anche nei suoi cambiamenti e nella breve durata degli stessi artisti?
C.V. – Caro Volker, penso che l’arte contemporanea sia, nel suo complesso, straordinariamente noiosa. Ma anche, in moltissimi casi, semplicemente straordinaria. Noiosa perché in troppi pensano, in mancanza di metri di giudizio, che l’arte sia facile, un gioco in cui non si rischia niente, basta un’idea curiosa e sei ricco.
E insieme straordinaria perché mai come ora l’arte è percepita come una necessità e ci sono artisti eccellenti che autorizzano ogni speranza.
Polemizzare con il mercato o la spettacolarizzazione dell’arte è impresa superiore alle mie forze. Ma non posso non notare anch’io il cinismo di un sistema che sembra assoggettare alle sue leggi ogni aspetto del nostro mondo. Tocca agli artisti conquistarsi la propria libertà, come del resto hanno sempre fatto.
V.W.F. – Puoi fare due mostre: una con un artista italiano e una con un artista straniero. Chi sceglieresti?
C.V. – Giuseppe Uncini e Ulrich Erben.
V.W.F. – Negli anni novanta hai usato colori impressionisti: come ci sei arrivato?
C.V. – Sinceramente non ho mai pensato agli impressionisti. Piuttosto, direi che nell’ambito della mia ricerca espressiva ho posato la mia attenzione su tutti i territori della pittura, passata e presente. In questo senso non escludo che la lezione degli impressionisti possa aver lasciato tracce nel mio lavoro, ma allo stesso modo dell’informale o dell’arte concettuale.
La libertà è anche questo: avere il coraggio di compromettersi, di contaminarsi con i propri amori. Ma quando ho avuto la sensazione di essere troppo condizionato da qualche autore, gli ho fatto un omaggio: un modo affettuoso di ucciderlo.
V.W.F. – Nella seconda metà degli anni ’70 i lavori sono meno costruttivi?
C.V. Senza dubbio i lavori a cui ti riferisci appaiono meno costruttivi, ma è altrettanto vero che senza una solida struttura il colore non si articola in nessuna “figura” (per dirla con Menna), non identifica alcuno spazio. Direi che un mio quadro è vivo e acquista senso quando il procedimento che lo ha determinato non si mostra più (pur rimanendo fondamentale).
E’ proprio quello che ho cominciato a fare in quegli anni liberandomi da schemi che rischiavano di diventare prevedibili.