Claudio Verna e la fine dei generi, in “La Repubblica”, Roma, 11 gennaio 1999
«La mia aspirazione è quella di essere definito pittore, senza alcun aggettivo di seguito. Quando ho cominciato il mondo dell’arte ancora s’accendeva in nome dell’astratto o del figurativo. Ero considerato un pittore astratto. Questa distinzione oggi ha perso completamente di senso e quindi vorrei essere ricordato soltanto come pittore».
Il pittore senza aggettivi è Claudio Verna, a cui dedica una grande antologica la Galleria comunale di Palazzo Sarcinelli di Conegliano (fino al 31 gennaio, catalogo Electa). Ed è da quegli anni di accesi dibattiti che ha ricordato l’artista, dalla fine degli anni Cinquanta, quando frequentava il gruppo fiorentino dell’astrattismo classico (Vinicio Berti, Nativi…), che parte questa mostra che, attraverso un centinaio di dipinti, arriva fino ai giorni nostri.
Aggiunge Claudio Verna: «Oggi la contrapposizione non è più tra astratto e figurativo ma tra chi fa pittura e chi non la fa».
Ripeto, la polemica tra astratti e figurativi è vecchia, se torna fuori è perché ci sono delle persone che la resuscitano, ma sostanzialmente è finta. I giovani, quelli che oggi hanno meno di trent’anni, cercano nuove soluzioni, nuove storie e hanno un atteggiamento di totale disinteresse verso le generazioni precedenti perché hanno sclerotizzato la situazione: da una parte l’Arte povera, dall’altra la Transavanguardia. Non hanno alcun interesse verso queste classificazioni e si stanno ponendo abbastanza duramente contro tutti, hanno quasi dell’astio che io ritengo causato da questo irrigidimento di posizioni».
Questi giovani artisti usano le nuove tecnologie, rifiutano la pittura?
«Non rifiutano la pittura. Dipingono ma non trovano spazio se non sono irreggimentati nelle posizioni già consolidate. Ci sono diversi gruppi che, purtroppo, spesso neppure colloquiano tra loro. Per questo dico che è arrivato il tempo di abbattere tutti gli steccati. Quanto alle nuove tecnologie, ai video… Sono per l’uso di ogni possibile mezzo anche se sono sempre sceso in campo per difendere la pittura, in cui credo appassionatamente. Ma quando uno va a fondo delle proprie esperienze alla fine entra in contatto, in sintonia, con le posizioni più diverse. Difendo la pittura ma artisti come Kounellis, Paolini o Castellani li stimo profondamente. E così altri».
La sua ricerca è però intorno al colore. Perché?
«Il colore è il protagonista del quadro. Molto spesso l’astrazione e la figurazione non sono altro che disegni colorati. Dopo Van Gogh, che disegnava con il colore, il processo si è fermato, la nuova astrazione tende a costruire con il colore. Ma è il colore che identifica lo spazio. Noi vediamo il mondo attraverso il colore, non attraverso il disegno, che in natura non esiste. Un albero finisce dove finisce il colore. E’ il colore che ha dentro di sé la struttura del quadro. Sono i due colori che messi insieme in un certo modo possono determinare una situazione drammatica o lirica. Non è certo il disegno. E’ alla base del quadro ma non è il quadro che è fatto dal disegno».
L’artista quindi, come sosteneva Picasso, «trova», non cerca?
«Mi piacerebbe poter dire come Picasso non cerco ma trovo. In realtà cerco, la mia è una sperimentazione continua, è un confrontarsi con il lavoro e con quello che avviene intorno, con le proprie idee e quelle degli altri».
Dopo l’esperienza fiorentina e un soggiorno milanese lei è stato per cinque anni senza dipingere. Come mai?
«Negli anni Sessanta accadevano molte cose, anche interessanti ma non erano mai pittura.
In quel periodo ho cercato di capire se con la pittura potevo esprimermi come loro, meglio di loro, se con la pittura si poteva fare arte. Ne ero convinto, me ne sono convinto ancor di più ma quando sono tornato a esporre, nel 1967, veniva addirittura negata la pittura. A quel punto il problema è stato vedere le ragioni della pittura e il problema non è stato semplice da risolvere perché la pittura trovava dei difensori ideologicamente vecchi, che facevano scudo davanti al ciuffo di peli sulla punta del bastoncino di legno, davanti al quadrettino a olio. Ma era quello che io detestavo. Pensavo, e penso, che con la pittura si possa fare un discorso moderno perché si rinnova continuamente come e più degli altri mezzi. La pittura rimane se stessa rinnovandosi rispetto alla tradizione».
Tre anni più tardi, nel 1970, lei espose alla Biennale di Venezia dove è stato presente altre due volte. Cosa pensa di questa manifestazione che quest’anno offre l’ultima edizione del secolo?
«La Biennale di arti visive di Venezia ha tanti limiti e tanti difetti ma è la cosa più importante che abbiamo in Italia. La Biennale deve essere una mostra internazionale vera. Io dico: facciamola funzionare, cambiamo il curatore ogni due anni, in modo che possa agire senza compromessi. Le ultime edizioni purtroppo sono state un disastro, sopratutto per il numero delle presenze: da un milione di visitatori, che nel passato quasi erano la regola, siamo arrivati a meno di duecentomila».
Forse i problemi nascono dall’arte contemporanea. A molti appare indecifrabile.
«E’ vero. Troppa arte contemporanea parla a se stessa. Tanti artisti e tanta pittura parlano di problemi interni all’arte, non si confrontano con il mondo. Sono attraversati da mille paure e invece bisogna compromettersi con la realtà, con gli altri, con il mondo».