Il problema, ormai, è di sapere di quale pittura si parla.
Perché il rischio più grosso è di ritenerla una specie di ritorno all’ordine o, nel migliore dei casi, una «lunga eco della tradizione». Ma così si torna al quadro come pezzo di bravura che, se mai è esistito, non ha più alcuna ragione di essere, o ai miti razionalistici e funzionali dell’avanguardia storica, morti quando finalmente ci si è accorti che l’arte non è la storia.
Avvicinarsi alla pittura, oggi, significa innanzitutto liberarla dei suoi attributi «tradizionali» che sono i significati simbolici, autobiografici, letterari e metaforici. Significa reinventarla, oggettivarla, allontanarla da sé, servirsene per proporre allo spettatore/fruitore una traccia per una ricerca comune, e non per offrirgli una verità che l’autore non può avere perché non esiste.
Al limite, assumo, nel fare, anche la parte dello spettatore, come d’altro canto è inevitabile nell’uso di qualsiasi linguaggio.
Per questo il quadro non può più essere considerato un fatto autonomo e isolato, ma va inserito in una serie, nel divenire di un processo, perché si possa stabilire un rapporto mentale e viverlo emotivamente.
Solo in un secondo tempo ha senso parlare di un quadro riuscito più o meno bene.
Parlare di pittura significa anche precisare che questo mezzo (mezzo e non categoria dello spirito) non ha alcuna posizione privilegiata o riduttiva nei confronti di qualsiasi altro materiale. Non si può parlare di pittura in astratto, ma solo in riferimento ad un particolare tipo di lavoro. I nessi logici e mentali hanno un senso, e il ragionamento una validità se spinti fino all’estremo, nel rispetto della logica interna; così, nel mio caso, ritengo che non ci sia mezzo più duttile della pittura per portare avanti un discorso in cui hanno tanta importanza la luce e il colore.
Naturalmente, in questa opera di oggettivazione della pittura, ciascuno forzerà i tempi e i modi, opererà le sue scelte, si darà delle leggi: ma saranno valide solo per lui, perché si riferiscono alla sua logica, serviranno al suo problema. Nel mio lavoro, l’avvio è stato razionale nella misura in cui ero consapevole delle operazioni che compivo e delle possibilità che potevo intravedere; ma le ipotesi iniziali (sviluppatesi dopo un lungo periodo in cui tutto il lavoro era affidato all’euforia dell’improvvisazione) non prevedevano meccanicamente tutte le varianti. Sostanzialmente mi aprivano un orizzonte in cui ogni atto non era programmato ma scelto, e aveva in sé le possibilità di nuovi sviluppi. Tutto il lavoro che è seguito ha obbedito a leggi che sono nate all’interno del quadro, leggi che io ricerco e verifico continuamente perché, come dice Burri, sono l’unica base del lavoro futuro.
Il bagaglio delle prove fatte, il quadro che ciascuno di noi ridipinge continuamente, sono lì a indicare un percorso, a fornire la traccia per continuare la propria vicenda. Per questo, non posso credere al gesto che annulla o cancella il passato: le scelte sono sempre a nostra disposizione, ogni atto è una decisione presa, un qualcosa che ci identifica. Certo, in mancanza di una cultura capace di esprimersi in versioni critiche più ricche e molteplici, in pieno capitalismo per quanto concerne la comunicazione e l’informazione (quindi induzione strisciante verso i luoghi comuni e il conformismo) l’arte è diventata più che mai una fatica improba e solitaria, la cultura un vero e proprio fatto eroico. Per questo, alla base del lavoro non può esserci più, come punto di orientamento, una scuola o una tendenza, ma solo la propria esperienza, una cultura elaborata e pagata di persona.
Dipingere significa anche poter affrontare i diversi aspetti di un problema e porli contemporaneamente in discussione. E questo è possibile con la pittura, a meno che non la si riduca a genere letterario come, per fare un esempio, succede con l’iperrealismo americano che, nella fissità ottusa di una riproduzione meccanica, toglie spazio in modo autoritario non alla partecipazione, ma alla stessa interpretazione dello spettatore.
Dipingere significa anche, direi per definizione, realizzare un’idea che non preesiste, ma che si identifica esclusivamente nel suo realizzarsi, infine nell’opera.
Questo non vuol dire negare valore ad un eventuale sistema della pittura, significa solo calarlo nella concretezza dell’operazione compiuta. Il processo che riconduce a linguaggio la massa uniforme delle infinite possibilità, è un intervento che ha valore solo come fatto mentale; non può quindi essere rappresentazione, allusione o, peggio, gesto espressionistico o feticistico (come in tanta arte povera).
Un esempio tratto dal mio lavoro, da una serie cominciata nel 1970 e che si sviluppa ancora oggi. Nel quadro «A3», il colore, un misto di grigio/azzurro/viola molto «colorato», acquista la capacità di determinare uno spazio curvo, in questo caso «indotto» da quattro punti definiti geometricamente: sono i punti d’incontro dei semicerchi tracciati con centro gli angoli del quadro e raggio i lati del quadro stesso. Manca praticamente l’immagine, e quindi il «racconto» come ad esempio viene ancora espresso dall’astrattismo storico italiano (e non), in cui spesso il colore è supporto della geometria. Nel mio caso, semmai, è vero il contrario: infatti, quando c’è, la geometria è al servizio del colore e delle sue possibilità. I quattro punti che orientano il quadro, identificano lo spazio, lo catturano, sottintendono un ordine razionale a quello che si presenta come uno spazio anonimo (seppure già privilegiato mentalmente, estrapolato dal supporto fisico della tela tramite un bordo dipinto con lo stesso colore della superficie ma come in negativo, cioè con colore magro).
Ho provato a progettare questo quadro, meglio a trasporre questo problema nello spazio reale, se si vuole a sperimentarlo con un’altra tecnica: i quattro punti focali del quadro li ho segnati su una parete quadrata del mio studio, coinvolgendo nell’operazione quanto era nella stanza per non alterarne il significato. Il risultato è stato che, mentre si perdeva l’efficacia dell’«impatto percettivo», la mancanza di colore faceva sì che lo spazio non si alterasse in alcun modo. Rimaneva il senso di un’operazione detta e non realizzatasi.
E questo perché non ha senso parlare di tecnica, ma di singole tecniche scelte, anzi inventate per i singoli problemi che si affrontano; come non ha senso parlare di pittori bravi al di là del valore delle loro opere.
Il talento è una parola di cui si abusa anche se la «manualità» è un valore.
Mi è capitato, qualche volta, nella foga del lavoro, di scegliere una scorciatoia per arrivare al risultato, per identificare subito sulla tela l’intenzione che mi aveva mosso: ho dovuto sempre scartare quel lavoro, proprio perché tecnicamente la scorciatoia è un trucco, e l’intenzione non è niente in arte: infatti è una giustificazione.
Si pone il problema della qualità del lavoro, della sua capacità di negarsi come affermazione di verità particolari, come dimostrazione o rappresentazione di qualcosa; l’arte si afferma come realtà complessa e misteriosa, come realizzazione di opere suscettibili di scatenare le nostre contraddizioni ad ogni livello di lettura, come nel tempo.