Innanzitutto, l’origine del mio lavoro non si situa intorno al ’70, ma negli anni ’60. Mi spiego. Dopo le prime mostre tra Firenze e Milano, affidate soprattutto all’entusiasmo tra il ’58 e il ’60, mi posi la fatidica domanda: sono un pittore, un artista, oppure dipingo per vanità, per ambizione o per cosa diavolo? E inoltre: dove sta andando l’arte, la pittura ha ancora in sé le potenzialità per fare arte e possibilmente grande arte? Come vedi, non sono domande da poco, anche se fatte con il candore dei venti anni, o meglio a venticinque anni nel mio caso; ma a quell’età non si è solo puri, si è anche spaventosamente forti (e fragili insieme): e io decisi che dovevo vedere chiaro in me prima di tutto, ma anche intorno a me, in quel casino sia pure affascinante che è il mondo dell’arte. Cominciai a lavorare ancora più forsennatamente, se possibile, di quanto avevo fatto fino ad allora, a provare e sperimentare, a confrontare, vedere, viaggiare, cercare di capire, rapinare se necessario, informarsi, insomma fare tutto il possibile esclusa una cosa: esporre!
Questo è un punto importante nella mia piccola storia: perché tra i venticinque e i trent’anni io non ho fatto vedere il mio lavoro a nessuno, ho distrutto quasi tutto e nonostante questo ho ancora un centinaio di quadri a testimoniare la mia fatica.
E vengo al 1967, l’anno in cui tornai ad esporre. Lo feci perché avevo fatto una scelta, preso una decisione sulla base del lavoro e della riflessione critica che avevo elaborato negli anni precedenti.
La pittura, a dispetto di certa critica e dei paladini dell’arte povera, non era morta; era morta certa pittura, quella che invece di rimettere continuamente in discussione i codici precedenti e infine se stessa, si affidava alla suggestione e allo splendore del passato. Niente è più triste che essere epigoni di una sia pur immensa tradizione. A me interessa il futuro o almeno la speranza del futuro. E sulla base di una indagine critica che ho in parte già riassunto in un mio libretto intitolato Pittura e scritto nel ’75, ero giunto alla conclusione che la pittura ha in sé, intatte, le potenzialità per esprimere, e testimoniare gli impulsi creativi che ognuno di noi custodisce, spesso inconsapevolmente, dentro di sé.
Negli anni dell’isolamento totale avevo confrontato la pittura con ogni altro mezzo espressivo, studiato Dada e Duchamp, il surrealismo e i formalisti russi, le ipotesi comportamentali e le esperienze Fluxus: stimo profondamente artisti come Paolini e Mochetti, Kounellis e Castellani, Fabro e Pistoletto, per rimanere agli italiani. Ma anche la pittura è più viva che mai negli artisti che hanno saputo vedere e confrontarsi, e soprattutto hanno saputo ripartire da un’analisi serrata e anche impietosa della storia della pittura, dei suoi elementi costitutivi, del suo essere una disciplina in cui speculazione e prassi sono inscindibili.
Perciò, per quanto mi riguarda, quando tornai ad esporre non ero assolutamente polemico verso le altre esperienze che si andavano facendo: anzi, le guardavo, come ora, con estremo interesse e curiosità. Tornai ad esporre per dimostrare quanto la pittura potesse essere criticamente consapevole degli stessi e di altri problemi che si ponevano artisti di diversa estrazione.
Mi ero evidentemente illuso. Per tanta critica e per moltissimi artisti, la pittura era morta e basta, non meritava di essere presa in considerazione, non andava neppure vista, era antiquariato, come mi disse un celebre gallerista romano alla Biennale di Venezia del ’68. Naturalmente trovai anche persone più attente, artisti capaci di vedere, qualche gallerista disponibile. Ma spesso l’ostracismo raggiungeva livelli ridicoli; la polemica divenne inevitabile. Non avevo scavato dentro di me con tanto accanimento per sentire sulla mia pelle, senza reagire, frasi fatte e luoghi comuni impastati di arroganza.
Cominciai ad esporre e scrivere, a difendermi e ad attaccare, a dire le mie ragioni. Mi accorsi che non ero solo, ma, ahimè, neppure in comitiva. Battaglia e la Morales a Roma, Griffa e Gastini a Torino, Olivieri a Milano, Guarneri a Firenze, Patelli a Venezia erano alle prese con problemi analoghi ai miei: avvicinarci fu naturale e avvenne spontaneamente.
Nel 1970, grazie a Dorazio, un artista fin troppo polemico ma tra i più grandi di questi tempi, esposi in una personale alla Biennale di Venezia. Poi fu la volta di importanti personali a Roma, Milano, Torino. Quindi nel ’72 cominciarono una serie di mostre collettive e di gruppo che fecero conoscere quella che si sarebbe chiamata, molto impropriamente, nuova pittura.
Non posso rinnegare quelle mostre perché nei fui sempre tra i protagonisti e, se guardo con obiettività agli esiti che ne derivarono, devo ammettere che furono utili. Ma troppi equivoci cominciarono subito ad inficiarne la validità. Qualche critico cominciò a scriverne senza letteralmente sapere di cosa parlava; mercanti senza preparazione pensarono che era nata la gallina dalle uova d’oro e cominciarono a speculare senza fantasia e intelligenza: infine, troppi artisti di secondo e terzo piano si accodarono per quel fenomeno di conformismo che non è fortunatamente solo italiano.
So bene che ciascuno di noi è responsabile di quello che fa e le giustificazioni sono inutili. Forse avrei dovuto essere più selettivo, rifiutare mostre e commissioni.
Ma certe critiche che ci sono piovute addosso sono viziate da moralismo, che forse rimane il peggiore dei mali. In ogni caso, i termini del mio lavoro non si sono certo modificati. Ho semmai potuto notare che molti cosiddetti compagni di strada erano semplicemente occasionali e che gli equivoci si sciolgono esclusivamente con il lavoro, con i processi inevitabili del lavoro e delle idee.
Quanto alla tua osservazione che la nuova pittura ha aggregato e rilanciato molti artisti che erano stati emarginati dalle altre aree di ricerca, ebbene penso di poterla smentire. Non credo proprio che una etichetta possa rilanciare chicchessia: questi sono fenomeni momentanei, problemi di gusto che lasciano il tempo che trovano. Tanto più nego che siano state rimesse in circolazione idee e oggetti ormai trascurati; o almeno, se in parte questo è avvenuto, al limite me ne dispiace perché l’ambizione era (ed è) di mettere in circolazione idee nuove e non certo compiere una azione di retroguardia. E vero invece che si sono aperti spazi (espositivi e di mercato) che hanno favorito giovani validi e consentito la giusta valutazione di artisti non più giovanissimi e artisticamente maturi. Il tutto naturalmente fino alla crisi economica che ha di nuovo frenato tutto, pittura compresa.
Mi fai domande anche per quanto concerne la critica. Qui il tasto si fa delicato e ne ho già parlato altrove. Ritengo che in nessun altro paese al mondo la critica abbia il potere che si è conquistato in Italia, anche naturalmente per colpa degli artisti. Da noi il critico non è tanto o soltanto uno studioso, ma è anche giornalista, manager, organizzatore, consulente di gallerie e spesso burocrate di partito.
Va bene l’impegno, ma tutto ha un limite. Alcuni di loro, recentemente, hanno tentato addirittura di sostituirsi all’artista, sviluppando il loro lavoro in termini di pura creatività. Dal canto loro, molti artisti sembrano tuffati ciecamente nel lavoro, delegando appunto alla critica il compito non solo di interpretare il lavoro, ma starei per dire di pensare al loro posto. So bene di fare una generalizzazione sommaria e che storici dell’arte seri se ce ne sono forse più che altrove: ma mi scandalizza il fatto che certe cose possano avvenire senza che si levino proteste. La recente strumentalizzazione degli artisti fatta dai critici della Biennale di Venezia 1978 è stata a dir poco grottesca.
Sono arrivato alla conclusione. Mi chiedi un giudizio finale su questa esperienza, sulla nuova pittura. Come ho già detto non la rinnego: ci sono state ingenuità, leggerezze, equivoci; ma prima la situazione era anche peggiore. Ho vissuto stagioni di polemiche esasperate, ma è pur sempre solo con il mio lavoro che posso sperare di decifrare in qualche modo il mio rapporto con la realtà. Per giocare un po’ con le parole, non mi fa piacere essere definito un nuovo pittore, ma ambirei a diventare un pittore nuovo. Ho avuto diverse opportunità di mostrare il mio lavoro, ma non saranno certo le etichette a farlo apparire migliore o peggiore di quello che è. Si è trattato di una esperienza, ma di me risponde solo il mio lavoro.