Come dipingo? La domanda è così insolita, che mi sento come costretto a rispondere: prima di tutto per chiarirlo a me stesso, come sempre quando ho scritto d’arte.
So bene perché dipingo e cosa mi propongo, quali possono essere i rapporti con la tradizione e le prospettive del nuovo, ma il “come” è talmente funzionale a questi problemi che mi è sempre apparso come qualcosa di necessario, di inevitabile. Quindi, a parlare solo di questo come, c’è il rischio di disarticolare arbitrariamente un fenomeno molto complesso, di scambiare una parte con un tutto che è già, di per sé, quasi impossibile da definire. A meno che non si cambi completamente prospettiva, un po’ come lo scienziato quando, per studiare l’universo, analizza le particelle più piccole della materia; o, più modestamente, come fa l’atleta quando approfondisce la tecnica di corsa per migliorare le prestazioni.
Di fatto, non posso dire di avere un metodo vero e proprio di lavoro, né criteri precisi cui attenermi. Quando mi pongo di fronte alla tela ho sempre la sensazione di avventurarmi in un territorio ancora tutto da esplorare: certo, forte della mia esperienza, degli errori fatti e degli esiti (forse) già raggiunti. Affronto il quadro come se fosse ogni volta la prima volta, o almeno il primo di una nuova fase di lavoro. Poi, naturalmente, mi rendo conto che ogni opera è anche la prosecuzione della precedente, la continuazione della mia indagine sulle infinite possibilità del colore. Ma cambia continuamente il punto di vista e quindi la tecnica si fa complice delle pulsioni che mi animano e del pensiero che sorregge la ricerca.
Io non faccio mai un disegno prima del quadro. La tela bianca è quindi lo spazio virtuale in cui tutto è possibile, il terreno di incontro di emozione e razionalità. Il quadro acquista senso quando queste componenti trovano una sintesi, imprevista e imprevedibile, e termina nel momento in cui tutto il lavoro fatto, gli sforzi, la fatica si annullano e l’opera sembra dipinta col massimo della naturalezza. Un po’ come l’attore che prova tante volte la parte e sul palco recita la sua verità. Solo che io non ho un copione, la mia parte (il mio quadro) la scrivo mentre la vivo.
Se non ho un disegno cui rifarmi, questo significa che comincio il quadro direttamente con il colore, convinto che è nella struttura del colore che devo cercare tutte le”figure” possibili, identificare lo spazio, far sì che la luce costituisca il fondamento stesso dell’opera.
Personalmente non ho il complesso della “pagina bianca”, ma inizio comunque a lavorare stendendo uniformemente sulla tela un primo colore, in genere rosso: mi serve per dare corpo alla superficie e sondarne la risposta. Il supporto è importante, anzi fondamentale, come la dimensione, valori da conoscere e rispettare. Una tela grezza o porosa o liscia richiederà pennelli diversi, quantità di colore variabili, qualunque sia la tecnica scelta.
Io in questi ultimi anni sono tornato ad usare i colori acrilici che, essendo pigmenti che si sciolgono con l’acqua, danno meno incidenza al segno, alla singola pennellata: per questo uso in genere pennelli molto grandi, le pennellesse, e lavoro sulle stesure successive, sulle velature, quelle che mi piace chiamare marezzature. Il quadro prende corpo lentamente con i vari colori che, all’inizio improvvisati, cominciano a dialogare tra loro, a scontrarsi, a suggerire ipotesi diverse. Il caso, le contraddizioni, l’accidente non vanno considerati remore o freni, ma parte integrante del processo.
Ho sempre pensato che la cultura, il pensiero, le esperienze fatte, ad un certo punto entrino a far parte della tua stessa natura e ti consentano di captare impulsi che vengono dal profondo, magari rimasti oscuri per lungo tempo. In qualche modo l’artista, come è stato scritto, è il “sovrano solitario di un regno spirituale” che vive dentro il presente ma nello stesso tempo ne è come separato. Questo comporta che l’opera è per certi versi sconosciuta allo stesso autore che si fa tramite di proposte tanto più importanti quanto più suscettibili di letture diverse nel tempo.
Insomma, quando dipingo non ho improbabili certezze. L’unica bussola cui riferirmi è la passione e il lavoro già fatto, a cui guardo con “sorvegliata attenzione” per azzardare ancora.