La soglia del colore – La pittura di Claudio Verna, catalogo personale Libreria Ferrarin, Legnago
La Pittura è tante cose: linguaggio, esplorazione, necessità e altro ancora. Eppure non è la somma di tutto ciò. Comunque la si affronti, essa trattiene sempre una parte per sé. Claudio Verna lo sa bene e proprio per questo, dopo oltre cinquant’anni di lavoro, ogni giorno va in studio e si mette all’opera: sa che nemmeno quel giorno riuscirà ad afferrare in un colpo solo tutto il senso della Pittura, che il problema rimarrà aperto dopo di lui, ma cimentarsi lo stimola oggi come la prima volta e forse la ricerca della soluzione lo affascina addirittura più che l’idea di trovarla davvero. Con questo spirito pensa e progetta la prossima mostra, così come ha pensato e progettato questa di Legnago. Partire per una volta dalla fine, dalla mostra cui questo catalogo si riferisce, sembrava dunque utile per tracciare un accompagnamento alle sue opere e alla sua pittura.
L’idea portante di questa personale riprende quella della antologica dedicata a Verna dal Museo Nazionale d’Abruzzo all’Aquila nel 2007. Durante l’allestimento, il nostro pittore si accorse che la tradizionale impostazione cronologica (dai dipinti più vecchi ai più recenti) non funzionava. Tutto quadrava invece avvicinando opere che, pur lontane temporalmente l’una dall’altra, affrontavano problemi analoghi. Così si è scelto di riproporre qui quell’intuizione e, anche in catalogo, parte della sezione delle immagini segue questa impostazione. La traiettoria dell’opera di Claudio Verna è infatti una sorta di spirale, che torna periodicamente sulle medesime questioni, ma con nuove consapevolezze: le istanze della Pittura restano le stesse, mutano le soluzioni che l’artista sperimenta e i mezzi che egli utilizza. Immutato e immutabile resta poi il predominio del colore.
Accostando le opere del Duemila con quelle degli anni Settanta, si capisce a prima vista come il colore rimanga per Claudio Verna ciò che egli stesso ha definito «il sovrano assoluto». I suoi quadri non sono “oggetti colorati”, bensì “oggetti di colore”, in cui il colore è elemento costituente senza il quale essi non potrebbero esistere. Ciò risulta evidente in dipinti come Chromium (2008) e Yellow (2009): da sotto il colore traspare altro colore, i sottili e regolari marcatori di spazio sono a loro volta costituiti da colore. Accadeva già quarant’anni fa, ad esempio in A 51 (1971), quando attorno agli incroci delle griglie si coagulavano altre sbavature provenienti dai piani più profondi e diventavano la struttura del quadro, «memorie di una storia» – come le definisce Verna in Qualche appunto sul monocromo, testo pubblicato per la prima volta in questo catalogo, nelle pagine seguenti. È una storia che, appunto, ciclicamente riemerge, come spiega, sin dal titolo, Ricognizione X (2008): la memoria del colore (dei colori) diventa forma, quasi si sostituisce ad essa.
La presenza della quadrettatura o di strutture più o meno rigorose non deve perciò fuorviare. Forme o non forme, quel che conta è il colore. Le bande laterali e i segni, come le croci e le quadrettature, hanno il compito anche oggi di individuare uno spazio luminoso, il che le avvicina alle opere degli anni Sessanta e Settanta pur senza ricalcarle. Questo ben si applica ad un’altra accoppiata di dipinti, un senza titolo del 1970 e A bande larghe (2009): entrambi sono di forma leggermente orizzontale ma in entrambi due fasce laterali costituite da colore (da colori, anzi, visto che non sono monocrome) correggono la forma prefissata dal telaio ed isolano in un quadrato centrale il consueto protagonista: il colore non è solo “coprente”, ma si qualifica anche come “strutturante”, e ciò avviene nel 2009 come avveniva nel 1970. Il colore non marca soltanto lo spazio, non struttura soltanto una superficie, ma infatti può anche bilanciare il campo, in forma di banda obliqua, doppio e corto in Pittura del 1976, singolo e più lungo in Bone black del 2009: nel primo spezza l’algida monocromia restituendo alla superficie quella componente di memoria cui si è accennato, nel secondo regola e confina la profondità del nero. A proposito del nero, Claudio Verna dimostra di conoscerne potenza e magnetismo, tanto da contenerlo entro angoli “strutturanti” in U. W. Z. del 1977, o bilanciarlo con piccole bande concentriche, come in Studiolo del 1987, ambedue le opere ulteriormente controllate dalla marcata impostazione centrale, suggerita subito dalla forma quadrata del telaio e confermata dalla composizione interna della superficie.
Claudio Verna conosce quindi bene il suo «sovrano assoluto». Questa conoscenza è al contempo strumento e frutto del lavoro quotidiano in studio. Trarre dal colore quanto umanamente si può è l’obiettivo del Nostro, il cui lavoro si è sempre spinto alla soglia del colore per ottenerne la massima potenza luminosa, affinché, tramite la saturazione, la luce diventi sostanza e non semplice accessorio esterno: «la luce determina le figure, in qualche modo le fonda: senza la luce le cose non sarebbero al buio, semplicemente non esisterebbero», ha detto lo stesso Verna nella lectio tenuta all’Accademia dei Lincei di Roma nel 2008. Per seguire questa ambiziosa linea d’azione, l’artista ha alternato nel tempo l’olio con l’acrilico. Dagli anni Duemila sta adoperando quest’ultimo, come accadeva negli “analitici” anni Settanta, ma negli anni Ottanta e Novanta ha prevalso l’olio, come alla fine degli “informali” anni Cinquanta. Oggi l’acrilico è necessariamente più utile alla sua ricerca, per la capacità, grazie all’acqua, di impregnare la tela senza marcarla con la pennellata. Il colore quindi, applicato anche con pennellesse, si impadronisce della superficie e la sollecita fin dalla prima stesura (solitamente rossa). Poi Verna procede per ulteriori velature che lentamente concorrono all’obiettivo finale, in cui sia forma sia luminosità raggiungono nell’opera un equilibrio emozionale, quella sensazione che egli stesso ama definire «marezzatura».
Non è stato usato a caso l’avverbio “lentamente”: non perché il suo operare sia lento, bensì perché ogni fase di questa stratificazione acrilica richiede un considerevole quantità di lavoro e di tempo per restituire le vibrazioni di cui il Nostro ha bisogno per procedere oltre. In tutta la sua carriera Verna ha infatti prodotto sempre un numero limitato di opere, mai più di venti l’anno. Alla produzione forsennata preferisce la gestione accurata di ogni fase, dal rapporto tra il tipo di tela e il tipo di pennello fino alla ricerca di una cornice adeguatamente neutra per ricondurre il quadro alla sua qualità di oggetto, staccarlo dalla parete circostante, renderlo più maneggevole (oggi è soddisfatto delle sue “cassette”, che a distanza di qualche millimetro circondano l’opera senza soffocarla). Il tempo è in definitiva componente determinante nel suo lavoro: da quello necessario alla riuscita dell’opera a quello che lo spettatore deve prendersi di fronte ad essa per percepirne tutte le capacità (i famosi “Tempi di percezione”, titolo di una fortunata collettiva del 1973), da quello della memoria di cui si diceva sopra fino ai tempi storici differenti che in questa personale si confrontano e dialogano.
Va fatta chiarezza sulla questione del disegno. C’è differenza tra l’importanza che esso assume per Claudio Verna e l’importanza per la sua pittura. Che sulla superficie dei suoi dipinti appaiano croci, segni e bande, è una genesi dal colore nella sua solidificazione in forma, e la cosa peraltro non sempre avviene (lo dimostrano due opere del 2009 presenti in mostra, Aneddoto e Transito n. 2, che pur rimangono compositivamente equilibrate). Ciò è vero anche per le opere di quarant’anni fa: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta – siamo agli albori della Nuova Pittura, da cui poi si sarebbe precisata la Pittura Analitica – la costruzione interna dell’opera, apparentemente governata dal disegno, era invece una costruzione di colore, riflessione su come questo elemento del linguaggio-Pittura riservasse altre potenzialità oltre a quella di coprente. In questa sottile distinzione, Verna è sempre stato netto, considerandosi appartenente a quella «nuova astrazione» italiana che Cesare Vivaldi nel 1972 distingueva dall’astrazione storica: quest’ultima si affidava al disegno come «struttura colorata», mentre la nuova astrazione costruiva tramite il colore – presupposto determinante per la nascita della stessa Nuova Pittura. Conferma di ciò si può trovare in un’ulteriore accoppiata di opere qui esposte, Studio del 1976 e Piccola nascita del 1995, nelle quali la funzione costruttiva del colore risulta subito evidente. Eppure, Verna disegna. Ma lo fa, come dice egli stesso, per decifrare i propri fantasmi, utilizzando pastelli su carta perché questi gli restituiscono la sensazione di poter dipingere con la mano. Ma raramente ciò che prende vita sulla carta viene riportato sulla tela: «Non faccio mai un quadro sulla base di un disegno, ma senza disegnare non potrei dipingere».
Citate Nuova Pittura e Pittura Analitica, occorre approfondire il rapporto che Claudio Verna ebbe con esse. In questo percorso a ritroso nella storia del nostro artista, si approda agli inizi degli anni Settanta, momento in cui il riflusso dell’Informale si era esaurito. All’impatto con l’Arte Concettuale, che ne dichiarò l’inutilità e la morte, la Pittura rischiò di trasformarsi in disciplina minore, conservata solo dai nostalgici. Verna invece ha sempre difeso la Pittura, stupendosi dei dubbi attorno ad una disciplina le cui ragioni, come egli stesso ancora oggi ricorda, sono «antiche e irrinunciabili». Invitato ad una collettiva a Caserta nel 1970, fu richiesto di rispondere alla domanda che dava il titolo alla mostra stessa: “Perché ancora la pittura?”. Verna ribaltò subito la questione: «perché “no” la pittura?», rigettando l’idea che fare pittura negli anni Settanta potesse essere un’attività antiquata, passatista o reazionaria. Verna dichiarava così di dipingere non perché non riuscisse a stare al passo coi tempi o perché non sapesse fare altro, ma perché la Pittura era il mezzo che aveva consapevolmente scelto per la propria ricerca.
Così, fin dal 1972, il suo nome fu quasi sempre presente nelle collettive che sino a circa il 1978 cercarono in diversi (troppi) modi di definire che cosa fosse questa Nuova Pittura. Ancora oggi quella definizione è rimasta in sospeso, resa più difficile proprio dalle varie letture che se ne tentarono all’epoca e nelle quali si imbattono gli storici moderni. È certo che in quel delimitato arco temporale alcuni tra i principali critici italiani e stranieri organizzarono una sessantina di mostre collettive in spazi pubblici e privati, in Italia e all’estero, attorno al problema di una pittura sganciata da ogni altro riferimento, autosufficiente rispetto ad altre modalità espressive in quanto linguaggio autonomo, con le proprie regole grammaticali, con i propri strumenti e le proprie dinamiche, una pittura che analizzasse se stessa e desse una “autodefinizione” utilizzando i propri elementi costituenti: la tela, il telaio, la superficie, il colore, la procedura e così via. A varie letture corrisposero varie denominazioni: “Pittura Analitica” fu una di queste, quella che ancora oggi gode di più fortuna, anche se di quel processo in corso negli anni Settanta fu la fase più precisamente delineata e strutturata in un ristretto numero di pittori, di problemi e di mostre. Da Klaus Honnef, il critico tedesco che nel 1974 aveva tenuto a battesimo la Pittura Analitica, Claudio Verna dissentiva sulla troppo rigida delimitazione del problema. Sempre refrattario alla «trincea» e alle definizioni per esclusione, Verna era contrario ad escludere a priori alcune delle numerose possibilità che la Pittura offre, e ancora oggi lo è.
Una delle istanze della Pittura Analitica era che l’opera finale non fosse la mera trasposizione sulla superficie di un progetto a priori, bensì l’incontro tra quel progetto e l’effettiva pratica del pittore. Certo, del progetto doveva per quanto possibile rimanere traccia nell’opera finita, ma quest’ultima doveva restituire anche quel grado di manualità che invece altre correnti, come ad esempio l’Arte Contettuale, tendevano ad eliminare. Per cui, anche nelle opere degli anni “analitici” di Claudio Verna, il procedimento costruttivo è sempre esibito ed è anch’esso regolato tramite il colore. Se pure, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, nelle sue opere sono parsi riguadagnare campo il segno, la pennellata, il gesto – aiutati dal ritorno alla pittura ad olio – il contributo sia artistico sia teorico che Verna ha dato alla Pittura Analitica è stato utile per definire meglio il raggio d’azione del pittore e le possibilità del colore.
Osservando il suo ambiente, Claudio Verna ha afferrato pregi e difetti della classificazione “per gruppi” delle correnti artistiche. Sempre ai Lincei nel 2008, il Nostro ha analizzato come la frantumazione della società moderna abbia tolto la componente collettiva ad ogni tipo di produzione. «Prima il pensiero si evolveva nell’ambito di una comunità, con il contributo di molti». Oggi non è più così: gli artisti vivono in una «dolorosa solitudine» e, dagli Impressionisti in poi, l’idea di ricreare una piccola comunità, omogenea per interessi e obiettivi, è stato tentativo per sfuggire all’isolamento. Questo però per Verna non deve condurre ad isolamenti di gruppo anziché di singoli. Così, se è stato inserito nel volume Neue Konkrete Kunst assieme, tra gli altri, a Lucio Fontana ed Enrico Castellani (Galerie M, Bochum, 1971), se è stato invitato a mostre di Informale (Galleria Numero, Firenze, 1959), ed è stato anche chiamato da Honnef e Catherine Millet alla mostra “Analytische Malerei” (Galerie La Bertesca, Düsseldorf, 1975), si è sempre guardato dal chiudersi dentro un nuovo recinto. Del resto, fin dai primi contatti col mondo della pittura, a Firenze alla fine degli anni Cinquanta, era rimasto colpito dall’acrimonia tra le fazioni dei “figurativi” e degli “astrattisti”, diatriba che in quell’epoca a livello internazionale non sussisteva. Tant’è che Verna ha sempre rispettato e in alcuni casi ammirato i pittori figurativi, stupendosi che ci si stupisse di ciò. Ma, come egli stesso ha confermato, gli interessa la Pittura, non la semplice astrazione. Ecco perché è refrattario alla «trincea» ed ecco perché la sua pittura è, più che esemplare di una corrente, un fil rouge che attraversa cinquant’anni di arte italiana – come dimostra l’inclusione della recente imponente collettiva “Il grande gioco. Arte in Italia 1947-1989” (contemporaneamente allestita alla Rotonda di via Besana, Milano, alla GAMeC, Bergamo, e al Museo d’arte contemporanea di Lissone), l’invito a tante altre mostre riassuntive di mezzo secolo di pittura nel nostro Paese e le ripetute partecipazioni alla Biennale di Venezia.
Alla prima Biennale cui prese parte, nel 1970, Verna portò, tra l’altro, alcuni polittici della serie “Iterazione ambigua”. Lì sono alcune chiavi per leggere le opere esposte a Legnago. Nella ricerca sulla capacità compositiva del colore, evidente entro strisce verticali o margini di tinte differenti, si intravedono le future “bande”. Nell’appoggiare al muro, senza appenderla, un’Iterazione ambigua formata da cinque pezzi verticali, si individuano quegli “oggetti di colore” di cui si accennava all’inizio. Della riunione in un’unica tela quei rettangoli, come in Iterazione ambigua n. 3, resta l’eco in Qualcosa da vedere (2000/2005) qui in mostra. Ma soprattutto, in quei polittici e in altre opere precedenti e seguenti, sono le origini di Stagione precoce (1998), parte di quella tipologia dei “doppi” che Verna ha sovente sperimentato nel corso dei decenni. In due tele accostate, messe a contatto, la divisione (diversa da quella di dittici e polittici in cui le parti sono distanziate) genera varie interazioni tra le due parti, come ha individuato Lorenzo Mango in un’apposita mostra a Roma nel 1999: scontro, dialogo, simmetria, raddoppiamento o anche integrazione e unione, tante sono le possibilità di questa soluzione (e di opere “intrinsecamente doppie”, come Con tutta evidenza del 2005 o, non presente qui, Astrazione del 1965).
I quadri doppi di Verna concretizzano lo scarto tra progetto iniziale e libertà compositiva. Pur operando al massimo del controllo, c’è sempre una parte non prevista che si integra nel risultato finale, come si nota anche nell’opera più antica presente in mostra, Sospensione del 1968: in essa quattro tele bianche delimitate da bordi colorati dovrebbero essere tutte accostate, eppure una di esse non si lascia (ancora) afferrare nel progetto generale, rompendo la simmetria delle parti. Risalendo la carriera di Claudio Verna, col 1968 siamo al confine di quell’intervallo di tempo (1961-1967) in cui il Nostro scelse di non esporre, per chiudersi nel proprio studio e trovare le ragioni del proprio lavoro, aprendo però al contempo la mente ad altre forme di espressione e di ricerca artistica. Quella dell’isolamento è fase comune a molti pittori, che presto o tardi necessitano di un confronto a tu per tu con la Pittura e in definitiva con se stessi. Verna giudicherà quella stagione «propedeutica» al suo essere un pittore più che mai convinto delle potenzialità della propria disciplina. Tornò sulle scene nel 1967, avendo chiaro che la Pittura è insostituibile ma che, come tutta l’arte, «per esistere, riscrive continuamente la sua storia, rinnovando i codici che l’hanno preceduta, rimuovendo tabù e azzardando a sua volta».
Oltre quegli anni di silenzio, c’era ancora (c’era già) il colore, come si capisce anche solo dai titoli delle opere, Cromoracconto e Cromopaesaggio (1960-1961), in cui la cromia domina incontrastata per il triennio espositivo iniziato con le “Tempere” del 1959. Questa è allora la soglia della Pittura: il momento in cui l’artista si ferma prima di perdere il controllo, oltre il quale l’equilibrio tra progetto e abbandono si romperebbe e prevarrebbe l’irrazionalità. È quella frontiera che Claudio Verna ogni giorno cerca di spostare più in là nel territorio della Pittura, quella personale muraglia che quotidianamente demolisce e ricostruisce più avanti, perché la soglia non è la trincea dietro la quale difendere la posizione, bensì la simbolica unione tra due mondi e anche limite oltre il quale si passa da una condizione ad un’altra. Come ha spiegato egli stesso, «l’artista non è un sacerdote che recita dogmi ma un uomo che affronta strade non ancora percorse, pone interrogativi e qualche volta trova una verità che riguarda anche gli altri e li emoziona». Tra le tante cose – si diceva all’inzio – la Pittura è esplorazione, e il percorso di Verna è sempre stato un’avanscoperta, dalla quale ogni volta tornare e restituire le sensazioni che ha vissuto lui per primo. Per emozionare a sua volta, con la sua arte affida allo spettatore il suo racconto. Poi si prepara a tornare in studio domattina ed addentrarsi ancora di più nei territori del colore.