Pittura essenziale e colore tra ordine ed eccesso, razionalità e istinto. Tappe evolutive nell’opera di Claudio Verna, Catalogo ragionato, Fondazione VAF, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2010
Quando a Firenze, all’età di circa vent’anni. Claudio Verna decise di fare il pittore, la pittura, regina delle arti, disciplina per la quale gli auguri della critica profetizzavano in quei giorni, quasi unanimemente, un futuro oscuro, non sembrava promettere grandi cose. Qualche critico preveggente poneva in dubbio la sopravvivenza del quadro dipinto secondo le tecniche tradizionali – servendosi cioè di tela e colore – e faceva intravedere in generale la fine imminente di tale forma di espressione artistica. Le ragioni esteriori di questa visione pessimistica andavano ricercate nello stato di agonia dell’informale, il cui gesto soggettivistico era divenuto vuoto, ripetitivo e stereotipato e le cui motivazioni filosofico-esistenzialistiche erano venute meno nel mutato clima epocale. Eppure l’esaurirsi delle energie legate a un fenomeno stilistico transitorio non è sufficiente a spiegare un simile attacco rivolto specificamente alla pittura. Il susseguirsi delle posizioni è nell’arte contemporanea una vera e propria legge, la quale solitamente intacca ben poco le singole categorie artistiche, e del resto già in passato la pittura era sopravvissuta incolume a non pochi cambiamenti. In verità, a guardare le cose da un punto di vista odierno, la pittura non è stata veramente in pericolo nemmeno in quegli anni. Le voci che profetizzavano una sua fine imminente muovevano anche da interessi particolari ed erano in realtà frutto di inutili azioni dimostrative, attraverso le quali una serie di propagandisti tentavano di dare spettacolo e di imporsi, tentavano di rinunciare alla pittura per annunciare nuove tendenze.
Ma in una prospettiva più ampia essi non riuscirono a compromettere la pittura: nella storia dell’arte regna infatti il principio del parallelismo. Con ciò intendo dire che all’interno di un determinato contesto cronologico, sussistono immancabilmente le più diverse confessioni artistiche, cosi come esistono una molteplicità di personalità creative dalle età più disparate, le quali portano contemporaneamente nella discussione i loro approcci all’arte e differiscono di gran lunga l’una dall’altra nelle posizioni stilistiche. Eppure tutte queste figure in competizione fra loro – ognuna delle quali crede di essere in possesso della verità – e i loro rispettivi proseliti convivono per lo più in una pacifica coesistenza, vale a dire in una naturale concorrenza. Lo stesso accade tutte le volte in cui vengono avanzate nuove proposte artistiche o personaggi ribelli, spiriti rivoluzionari, prendono in mano la situazione: essi non scacciano tutti quei produttori d’arte cha si sono già assicurati il proprio posto nella storia. Al massimo si può affermare che quanti vengono emarginati dal normale corso delle cose e si ritrovano estromessi dal discorso artistico, passano di moda e cessano di essere presi in considerazione. Chi debba rimanere e chi venire dimenticato sono altre istanze a stabilirlo, fermo restando che il discorso sull’arte e i temi in esso trattati risultano essere in ogni caso i parametri fondamentali per quel giudizio che decide dell’importanza storica dei contributi artistici. Esistono naturalmente nella storia dell’arte movimenti ondulatori di forze innegabili, per opera dei quali specifiche novità e priorità vengono per un certo tempo in primo piano. Dopo un po’ però, non appena si profilano all’orizzonte nuovi accadimenti, anche quelle novità e priorità passano in secondo piano ed entrano a far parte dello spettro multiforme da cui è costituito, nel suo insieme, lo scenario artistico. Per quanto riguarda il tramonto – in realtà fittizio – della Pittura Informale, appare evidente, a uno sguardo più attento, che: primo, sono stati processi e motivazioni di tutt’altro genere a favorire, fondamentalmente, il transitorio scetticismo nei confronti del potenziale di questo tipo di pittura: secondo, quello scetticismo riguardava e concerneva in realtà solo indirettamente la pittura in quanto tale. La Pittura Informale veniva presa di mira perché ritenuta garante di un’estrema finzione. Fu questo fattore a provocare rifiuto e ipersensibilità nei suoi confronti. Esso la contrapponeva infatti alla ricerca di obiettività e autoreferenzialità che caratterizzava l’arte in quel periodo.
Tutto questo accadeva verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento, vale a dire in un’epoca in cui proprio la pittura, in special modo l’Astrattismo libero, faceva registrare successi trionfali. In quello stesso periodo, per la precisione nel 1959, nell’ambito della seconda edizione di documenta a Kassel, era stato assegnato all’Astrattismo, in quanto rappresentante di un “linguaggio universale dell’arte” il primato assoluto. Werner Haftmann, curatore di quella mostra, la quale intendeva tracciare un bilancio storico e porsi come “specchio ustorio”1 dell’arte contemporanea, lo elevò addirittura al rango di “caso esemplare nella cultura del genere umano”2, il cui “fascino […] va ricondotto alla grande e seducente quantità di libertà che in esso si esprime”3 la qual cosa, enunciata in altri termini, non voleva dire che questo: nelle “differenti forme”4 del “processo espressivo in pittura”5, vale a dire “Art autre”, “Art informel”, “Revolution de l’infiguré”, “Action paintinq”, “Tachisme” ecc.”6 si manifesta il “particolare pathos dell’esperienza dell’essere moderno”7 e questo fornisce anche una prova della libertà di cui gode l’Ovest rispetto all’Est totalitario. Tirando le somme di tutti i diversi approcci che, a partire dai loro esordi nel XIX secolo, avevano segnato il progresso delle avanguardie, Haftmann giungeva a una conclusione per cosi dire perentoria, compendiata nell’idea “che il vasto dominio del confronto con i fenomeni visivi del mondo degli oggetti non fornisce ormai che deboli impulsi. L’arte è divenuta astratta”8. In questa maniera veniva accantonato, secondo Haftmann, anche quel conflitto di fondo che si era sviluppato, in base ai suoi calcoli, soprattutto “fra il 1945 e il 1950”9 e che, a partire da Guernica di Picasso, opera del 1937, aveva indotto a discutere la questione se la nuova arte dovesse essere contrassegnata da modi figurativi e da un impegno di natura sociale o non piuttosto da una forma di comunicazione estetica nella quale “il quadro” non è più “il campo di riproduzione di un mondo esterno da ricreare” ma si è trasformato in un “campo evocativo di fenomeni”10 che non dipendono più da dati percettivi esteriori ed empirici.
In effetti anche l’edizione di documenta del 1959 fu un’impressionante parata – per quanto non priva di lacune – dei grandi pionieri dell’arte astratta, soprattutto dopo il 1945. E fu anche una manifestazione a coronamento della quale venne approntata, per cosi dire, la lista di quei protagonisti dell’Astrattismo che avevano ora diritto a un posto nella storia dell’arte, cosi come nelle collezioni dei musei. Su molti di questi nomi a poco a poco è calato il silenzio, poiché altre priorità sono venute emergendo, ma ciò non toglie che molti di essi sono oggi noti a livello internazionale e annoverati tra i grandi dell’arte contemporanea e che venga loro assegnato un posto importante nei musei e un alto valore di mercato. In riferimento all’arte italiana vanno ricordati soprattutto Afro, Renato Birilli, Alberto Burri, Giuseppe Caporossi, Antonio Corpora, Piero Dorazio, Gianni Dova, Lucio Fontana, Osvaldo Licini, Alberto Magnelli, Marino Marini, Giorgio Moranti, Mattia Moreni, Ennio Borlotti, Giuseppe Santomaso, Emilio Scanalino, Toti Scialoja, Mario Sironi, Luigi Spazzapan, Giulio Turcato ed Emilio Vedova, i quali avevano tutti partecipato alla seconda edizione di documenta. Ancora più interessante di questo elenco è forse quello di coloro che all’epoca non erano stati ammessi in quell’olimpo, il che vale sia per l’Italia che per altre nazioni, poiché mancano, con tutta evidenza, proprio quei nomi che poco dopo si sarebbero rivelati i più rappresentativi della rivolta contro l’Informale.
Il fastidio, già a quel tempo sempre più accentuato, nei confronti dell’informale diviene comprensibile se si prende coscienza del clima epocale, che traspare dalle parole di Haftmann – il quale viene qui preso a esempio della retorica, allora diffusa ovunque, degli intermediari dell’arte – e che veniva percepito da molti giovani artisti come non più compatibile con la loro visione dell’esistenza. Il fatto che quel pathos declamatorio, quel mescolare imperativi etici e morali all’arte fosse fondamentale anche per altri interpreti di quel periodo risulta evidente in alcune dichiarazioni dei critici Giulio Carlo Argan e Nello Ponente, non molto distanti da quelle di Haftmann. Nel 1958 essi scrivevano in un saggio sull’arte italiana del dopoguerra: “gli artisti italiani avevano considerato se stessi [durante il fascismo e la guerra, n.d.a] degli esclusi rispetto a un mondo libero. Ora facevano esperienza del fatto che quel mondo non era né libero né felice e che la crisi delle coscienze e dell’arte in Italia era solo un episodio all’interno della più ampia crisi europea. La consapevolezza di una tragedia che gravava sull’umanità era più forte di tutte le differenze di tradizione e di cultura, il mondo intero vedeva dinanzi a sé lo stesso identico problema: superare, per una questione di responsabilità morale, la mancanza di libertà grazie a un disperato sforzo di volontà”11. Nonostante l’apparenza di ottimismo di una tale ideologizzazione della libertà, in queste parole serpeggia in sostanza uno spiccato pessimismo, seppure sotterraneo. In esse si avvertono ancora, latenti, quell’apologetica ammonitoria e quella zavorra ideologica che contrassegnavano gli anni del dopoguerra e appesantivano anche le interpretazioni dell’arte e l’arte in quanto tale, in questo caso l’Arte informale. Regnava ancora, in quegli anni, una melanconica atmosfera di crisi che si ripercuoteva, a livello mentale, su idee e comportamenti contraddistinti da un atteggiamento dell’io in cui paura, solitudine e senso di inutilità si affiancavano ad aspetti nei quali il confrontarsi col nulla era altrettanto fondamentale quanto il sottolineare i fattori soggettivi nella realizzazione dell’esistenza individuale. Decisivi furono, in quegli anni, motivi quali l’assurdità dell’esistenza, la noia, il disgusto e la possibilità del fallimento individuale. In questo modo di pensare, anche il concetto di libertà gioca un ruolo fondamentale, ma non nella forma trasfigurata in cui la libertà sarebbe stata definita nel contesto politico della Guerra Fredda. Primo fra tutti Sartre pose l’accento sulla libertà come esperienza esistenziale negativa, dal momento che in essa il fallimento è implicito. La pretesa di libertà del singolo collide infatti, per forza di cose, con la pretesa di libertà degli altri, e questo concetto si manifesta nell’affermazione “l’inferno sono gli altri”, contenuta nel suo atto unico A porte chiuse. Sono proprie queste le idee che si ritrovano nei miti del fare creativo che erano stati coltivati negli anni Cinquanta dai protagonisti della pittura Informale e dai teorici che la sostenevano. Nel gesto soggettivo del creare dovevano sempre e comunque ripercuotersi i segni di un’esistenza vissuta e sofferta, un dipinto era sempre anche lo psicodramma individuale di un soggetto.
Questo stato mentale di disorientamento della gioventù del dopoguerra, per definire il quale Jack Kerouac col suo slogan “beat-generation” e John Osborne con i suoi “giovani arrabbiati”, avevano trovato le formule più appropriate, sfociò in un senso della vita nel quale venivano coltivati atteggiamenti ribelli ed esaltato un “uomo senza trascendenza”. Tutto questo si manifestava nella filosofia e nella letteratura di quegli anni, nei quali autrici quali Francois Sagan. con titoli quali Bonjour tristesse, compendiarono la mentalità di un periodo contrassegnato da scetticismo e dolore cosmico e nei quali furono attivi scrittori quali Paul Celan, Albert Camus, Samuel Beckett, Eugène Ionesco, Max Frisch, Curzio Malaparte, Alberto Moravia e pensatori quali Karl Jaspers, José Ortega y Gasset e Jean Paul Sartre. Ho nominato a caso solo alcune delle autorevoli figure che diedero espressione, a livello di contenuto e di lingua, a quel problematico senso della vita. Sono stati questi conflitti interiori a far attecchire, in fin dei conti, la critica contro un informale estremamente soggettivistico e fin troppo fortemente contaminato da un’ideologia libertaria di stampo messianico – percepita come falsa – e a trasformarsi a poco a poco in una negazione dello strumento artistico di quel propagandare e problematizzare, sul piano esistenzialistico, il concetto di libertà. Ma questo strumento era in primo luogo la pittura del gesto soggettivo, il che vale a dire che nella misura in cui, sul piano della storia delle mentalità, veniva superata la sindrome del dopoguerra, anche le sue espressioni artistiche venivano messe in discussione. Esse erano – a volerle illustrare in base a categorie stilistiche – il Tachisme, l’Acton Painting, l’Espressionismo astratto e, soprattutto, i diversi modi dell’Informale, il cui spettro d’azione si estendeva, come tutti sanno, da libere annotazioni calligrafiche di una motricità impulsiva e gestuale all’accentuazione di materiali, strutture e tessiture. In ogni caso tutte queste soluzioni erano in grado di fornire una grande ricchezza di innovazioni nell’ambito dell’impiego dei mezzi figurativi, e non ci si dovrebbe dunque lasciare indurre dai sentimenti allora maturati contro l’Informale, a un’infondata ostilità verso questo tipo di arte, ostilità che farebbe perdere di vista le importanti conquiste estetiche di questa fase dell’Astrattismo. La finezza delle procedure pittoriche e la qualità degli effetti materici raggiunti dagli artisti della corrente informale hanno dimostrato fino a oggi una durevolezza maggiore, all’interno della pittura, di quanto non si creda solitamente. Questo vale soprattutto per quella tendenza nella quale la questione fondamentale dei mezzi del dipingere divenne tema prioritario, vale a dire la cosiddetta Pittura Progettata, denominata anche Pittura Assoluta, Pittura Pura, Pittura Essenziale, Pittura/Pittura, Pittura Radicale.
Ma verso la fine degli anni Cinquanta tale corrente non risulta ancora definita né sul piano teorico né su quello pratico, e del resto è opportuno, nell’interpretare una tendenza come possibile precorritrice di un’altra, non affrettarsi a confondere la pura e semplice somiglianza visiva con l’analogia e non cancellare le differenze che esistono fra una tendenziale vicinanza e una vera e propria influenza. Tener conto di questi fattori è importante sopratutto nel momento in cui si guarda agli americani e alla grandiosa invenzione del “Colourfield Painting”. Le opere di artisti come Barnett Newman e Ad Reinhardt, i quali già agli inizi degli anni Cinquanta – dunque nel quadro di riferimento dell’Espressionismo astratto – producevano grosse espansioni di colori puri che campivano tele enormi, potrebbero senz’altro essere considerate delle anticipazioni dei futuri procedimenti della Pittura Analitica, se i dipinti a campi di colore fossero stati realizzati con questo intento. In verità quegli artisti non avevano intenzioni paragonabili alle questioni quasi linguistiche, ovvero strutturali, che venivano poste all’interno della Pittura Analitica o Assoluta. Essi miravano, è vero, sia all’oggettivazione del colore in quanto fenomeno suggestivo a sé stante, sia alla negazione delle tracce individuali nelle procedure pittoriche: ma contemporaneamente coltivavano anche un misticismo tutt’altro che americano, che si esprimeva in Newman nella formula del “sublime” – dunque di una grande e raffinata sensibilità – e in Reinhardt nell’esortazione a una ricezione meditativa. Fra i protagonisti della pittura a campi di colore, o se si vuole dell’Astrattismo Cromatico, sono piuttosto pittori come Clifford Still e Mark Rothko a potere aver funto da modelli per la Pittura Assoluta. Soprattutto nei dipinti di Clifford Still si osservano già un esplicarsi del processo pittorico e del tratto del pennello e una messa in rilievo delle energie della materia coloristica – in una stesura che avviene a volte su grande scala e a volte si fa particolareggiata e puntuale – che possono senz’ altro aver agito da guida nella ricerca di una pittura nuova che facesse seguito all’Informale. Rimangono ancora i rappresentanti di quella tendenza che il critico Clement Greenberg ha etichettato come “Post Painterly Abstraction”, vale a dire Ellsworth Kelly, Kenneth Noland, Frank Stella, Al Held, Helen Frankenthaler, per nominarne solo alcuni. Anche le loro opere, che essi cominciarono a realizzare a partire dalla fine degli anni Cinquanta, mostrano un impianto visivo caratterizzato da forme planimetriche dagli esatti contorni e campi di colore dal taglio indiscutibilmente semplice, di norma realizzati con precisione nelle forme tipiche della geometria: eppure anch’essi, a prima vista, hanno piuttosto poco a che fare con la Pittura Assoluta, eccetto il meno noto Jules Olitski, il quale, alla pari di Clifford Still, aveva sorprendentemente già avviato un trattamento pittorico degli eventi coloristici e delle relazioni fra zone di colore sulla superficie – zone poste in dialogica tensione fra loro – ricco di sfumature. Quello stesso gruppo di artisti, tuttavia, ha poi conosciuto uno sviluppo per cui nel 1966, col titolo di “Systemic Painting”, sono stati presentati al Guggenheim Museum di New York risultati che vanno visti come anticipazioni del pensiero metodico e analitico in pittura. Anche a Yves Klein, che già a partire dal 1955 aveva introdotto la monocromia e nel 1957, alla Galleria Apollinaire di Milano, espose per la prima volta quadri realizzati in quell’intenso blu oltremare che sarebbe poi divenuto i! suo mezzo coloristico d’elezione, viene spesso attribuito il titolo di capostipite della Pittura Assoluta, ma nella pratica è da escludere che la Pittura Pura abbia potuto mutuare da lui delle idee. Egli va piuttosto annoverato fra gli artisti che miravano a un oggettivazione dell’opera d’arte e alla fine della pittura intesa in senso tradizionale: d’altra parte però Klein cercava di trasmettere – anche attraverso la sua propensione per un “universalismo romantico” e il suo tendere a una “pittura smaterializzata” in un senso elevato, cosmico – l’esatto contrario della pura fatticità. La sua arte viene significativamente inserita in quella corrente il cui portavoce, Pierre Restany, fu il più accanito avversario della “pittura da cavalletto”, e cioé il Nouveau Realisme, iniziativa di gruppo che riscosse per qualche tempo un successo strepitoso. Un’attitudine dello stesso tipo per i momenti esperienziali mistici ed esoterici presenta anche Arnulf Rainer le cui “sovrapitture”, che l’artista cominciò a realizzare già a partire dal 1953, persuadono soprattutto per il furioso azionismo gestuale con cui egli, attraverso l’impiego di una pennellata sapientemente espressiva, dinamica e scattante, ricopre la superficie pittorica a formare un all over che si estende fin quasi alle estremità del quadro, tanto che ne risulta l’impressione di un’espansione monocroma de! colore. E’ solo in qualche zona marginale della tela che egli arresta questo prorompere del colore stesso, in modo che delle sezioni dell’immagine sovradipinta rimangano in vista. In nuce già si manifestano, in questo processo i rituali pseudoreligiosi del futuro Azionismo viennese.
Il 1959, anno in cui Claudio Verna espose alla Galleria Numero di Firenze le sue prime prove pittoriche, rappresenta dal punto di vista cronologico una situazione di confine. Non c’è dubbio che l’Informale fosse ancora vitale. Lo si vedeva nelle mostre, nei musei, nelle gallerie e negli ambienti artistici in generale. Esso era presente a livello di persone e di istituzioni, soprattutto fra il personale docente delle accademie. Al tempo stesso però era in corso, e non risultava più possibile ignorarlo, un ricambio delle forze in campo. Le voci che si opponevano alla trasfigurazione del soggettivo e al culto del genio creatore e che reclamavano uno status oggettivo dell’opera d’arte si facevano sempre più forti. All’ordine del giorno erano ora obiettivi quali l’autonomia, l’autoreferenza, la libertà di associazione, l’autenticità, la veridicità, l’evidenza e non da ultimo l’anonimia dell’opera e la cancellazione della soglia tra vita e arte, gesto in cui rientrava anche il coinvolgimento interattivo dell’osservatore. In questo contesto fu un particolare artista ad assumere il ruolo guida, un artista i cui eretici contributi, estremamente ambiziosi dal punto di vista intellettuale, risalivano ormai a quarantacinque anni prima, ma le cui idee assumevano solo ora un’importanza tale da porre in una nuova prospettiva non solo l’intero pensiero sull’arte ma anche la definizione dell’arte stessa sul piano sociale e ideologico. Questo artista era Marcel Duchamp. Egli mise in moto una ricerca radicale sui fondamenti dell’arte in generale e avviò nello specifico un’indagine che metteva alla prova e smascherava senza riserve tutti gli aspetti su cui poggiavano tradizionalmente non solo lo status estetico esclusivo dell’opera d’arte ma anche la sua ricezione. Nel discorso sull’arte balzarono ora in primo piano dibattiti che investivano non solo la questione dell’ampliamento del concetto di arte e della differenza fra I’opera d’arte e il reale oggetto quotidiano, ma anche le possibilità di trasferire l’arte nella realtà e viceversa, operazione in cui rientravano anche fenomeni quali le installazioni di opere in situazioni ambientali o nella natura, nonché l’impiego del corpo come strumento espressivo. Si trattava di definire quali fossero le condizioni e i fattori fondamentali che fanno essenzialmente un’opera d’arte, di esaminare per esempio la questione se l’opera esista già a livello di idea e di fenomeno mentale o se essa debba concretizzarsi sul piano materiale e visivo per essere definita tale. In generale, in seguito all’influsso di Duchamp, riflessioni di carattere gnoseologico andarono assumendo per gli artisti un ruolo sempre più significativo e sempre di più un pensiero assai sistematico, analitico, metodologico e concettuale concorse alla creazione del messaggio artistico. A questo si aggiunga la rivelazione a scopo dimostrativo di modalità processuali all’interno della consistenza visiva di un’opera, insieme alla riduzione dell’opera stessa a elementi primari sostanziali e indivisibili, i quali dovevano essere liberi da ogni sovraccarico e non mettere più in moto rappresentazioni secondarie che potessero distogliere dalla presenza effettiva dell’opera. .
Tutti questi nuovi approcci al fare artistico si svilupparono inizialmente soprattutto a svantaggio della pittura, cui veniva ancora associata l’immagine negativa di strumento provato dell’inganno e dell’apparenza e che perciò era considerata la forma meno adatta a un procedere artistico nel quale si richiedevano prevalentemente riflessione e concettualità, oltreché una verità e un’autenticità assolute. AIlo svilupparsi di tali giudizi contribuì anche Marcel Duchamp. La pittura era infatti per lui una disciplina superata, dal momento che non consentiva altro che una riproduzione “retinica” della realtà, ed egli considerava questa forma di conversione artistica assolutamente secondaria rispetto a un rapporto dell’arte con la realtà nel quale l’impeto creativo doveva essere rappresentato esclusivamente dall’idea e dalla riflessione intellettuale.
In effetti si potrebbe parlare, per il periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Sessanta inoltrati, di una sorta di dottrina duchampiana. Duchamp va ritenuto infatti responsabile, in quanto ispiratore sul piano delle idee, di una serie di nuovi contributi artistici caratteristici di quegli anni, ed è evidente del resto che nessuna delle posizioni che a lui si richiamavano – e queste erano essenzialmente Fluxus, Nouveau Réalisme, Environment, Performance e Happening, Nouvelles Tendances, Arte Cinetica., Arte Oggettuale, Body Art, Land Art, Mec Art, Arte Concettuale e Minimalismo – produsse dipinti. Questo dato di fatto – insieme alle molte dichiarazioni dei protagonisti di quelle tendenze, nella cui retorica fatta di formule polemiche rientrava anche la proclamazione della fine della pittura – destava l’impressione che la pittura fosse stata effettivamente rimossa. A ciò contribuirono in maniera decisiva anche gli organi di stampa. Simili slogan ebbero infatti ampia risonanza fra coloro che facevano opinione in ambito artistico, fra i critici e nei media. Eppure la pittura non era l’obiettivo principale di quelle critiche, essa era semplicemente una categoria di rilievo all’interno di quel genuino bisogno d’espressione dell’essere umano che normalmente chiamiamo arte. Era l’arte, in ultima analisi, che i sostenitori di Duchamp miravano a smantellare, l’eliminazione della pittura era solo un effetto collaterale di quell’opera di smantellamento. E cosi nel 2°’ Manifesto del Nouveau Réalisme. redatto nel 1961 da Pierre Restany e intitolato A quaranta gradi sopra dada, si legge “Nel contesto attuale i ready-made di Marcel Duchamp {…} assumono un senso nuovo. Traducono il diritto all’espressione diretta di tutto un settore organico dell’attività moderna, quello della città, della strada, della fabbrica, della produzione in serie. Questo battesimo artistico dell’oggetto d’uso costituisce ormai il “fatto dada” per eccellenza. Dopo il no e lo zero, ecco una terza posizione del mito: il gesto anti-arte di Marcel Duchamp si carica di positività”12. Un anno prima, nel I960, Restany scriveva nel 1° Manifesto del Nouveau Réalisme intitolato / nouveaux réalistes: “assistiamo oggi all’esaurimento e alla sclerosi di tutti i vocabolari stabiliti, di tutti i linguaggi, di tutti gli stili. […I La pittura da cavalletto (come qualsiasi altro mezzo espressivo classico nel campo della pittura o della scultura) ha fatto il suo tempo”13.
Ma Restany era in errore: la pittura come tale non era né superata né tanto meno tramontata, semmai era una delle sue varianti transitorie, e cioè la Pittura Informale, ad aver “fatto il suo tempo”. Parallelamente a questa crisi si preparavano infatti da tempo nuove possibilità per la pittura, per una pittura astratta, senza considerare il fatto che proprio in quella fase entravano in scena, o semplicemente proseguivano la loro opera, pittori ai quali riuscì, anche sulla base di concezioni figurative, di trovare soluzioni di stupefacente innovazione. Vanno ricordati, a questo riguardo, Francis Bacon, Larry Rivers, Peter Blake, David Hockey, Ronald B. Kitaj, Richard Lindner, Leonardo Cremonini, Domenico Gnoli e il grande Giorgio Morandi, il quale fu in grado di evocare l’assoluto pittorico dandogli forma oggettiva. Non secondario è il fatto che la maggior parte dei protagonisti della Pop Art fossero rimasti assolutamente fedeli al quadro bidimensionale e che, soprattutto, anche artisti quali Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Allen Jones e Jim Dine conservassero, nelle loro opere, elementi pittorici trasferiti sulla tela con grande virtuosismo. Un’altra linea della pittura, che a partire dai dettami dell’Arte Concreta degli anni Cinquanta arriva fino al decennio successivo, raggiunse il suo massimo punto di sviluppo nella Op Art: ebbene, anche le opere nate da questa posizione stilistica erano dei dipinti a tutti gli effetti, eseguiti applicando il colore sulla tela per mezzo delle normali tecniche pittoriche. A ciò nulla toglie il fatto che venissero preferite, dagli artisti di questo orientamento, le forme dai contorni esatti, i motivi dalla chiara articolazione e le superfici omogenee, dalla linea netta e accurata. Anche l’Arte Segnaletica, che fece la sua apparizione intorno al 1960, prediligeva una stesura del colore piana e dalla finitura perfetta, all’interno di elementi formali fra loro ben distinti, dai margini ben definiti e dal disegno preciso.
Ma in quegli anni venivano già compiuti i primi passi verso una pittura nella quale da una parte ci si concentrava sui valori materici e coloristici del dipingere in sé e dall’altra si assisteva all’affermazione di quello spirito epocale che spingeva gli artisti verso un pensiero razionale, metodico e analitico all’interno del processo pittorico. Quei primi passi si concretizzarono in una nuova definizione del contenuto estetico del messaggio pittorico e furono compiuti da artisti che si immersero silenziosamente nel proprio operato, mentre nel frattempo avevano luogo, sulla scena artistica intorno al 1960, fragorose battaglie. Tra loro c’erano personalità per le quali l’avanzata senza compromessi verso i fondamenti, ovvero i principi e i presupposti ultimi dell’arte – vale a dire della pittura – risultava più importante che non la partecipazione agli scontri e ai dibattiti allora in corso. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, il fatto che il lavoro dei precursori della Pittura Pura non sia stato segnato da dichiarazioni anticipatrici né tanto meno da manifesti, ci appare scontato. Gli approcci al lavoro pittorico che si affermarono in questa prima fase si svilupparono nella forma di stili personali di artisti che si votarono al credo della loro arte tenendosi fuori dal mainstream, ma spesso godendo di alta considerazione, e che per lo più trassero le loro linee guida dalle tradizioni della Pittura Concreta. La ricerca dei primi rudimenti di un linguaggio figurativo ridotto all’indispensabile ci riporta indietro fino a Kazimir Malevic e soprattutto ad Aleksandr Rodcenko, il quale già nel 1920, nella serie dal titolo Scomposizione della superficie, aveva fornito esempi stupefacenti di una pittura elaborata ma formalmente ricondotta all’essenziale. Fu però soprattutto alla fine degli anni Cinquanta, con le opere di Josef Albers, artista nato nel 1888 e proveniente dal Bauhaus – opere che contribuirono a fissare nuovi criteri artistici – che la questione dei fondamenti ultimi e sostanziali dell’arte riacquistò significato. Con la sua serie Homage to the Square, inaugurata nel 1949, egli assunse una funzione guida. Ciò grazie alla chiarezza, alla semplicità e al rigore dei suoi risultati artistici, ma anche alla fermezza e alla costanza con cui, mosso da un grande spirito di ricerca, egli giocò con le molte varianti delle costellazioni coloristiche all’interno di un unico impianto formale. Non si può non ricordare, qui, anche un altro di quei silenziosi, grandi artisti di cui si è detto sopra, e cioè Antonio Calderara. Nato nel 1903, agli inizi degli anni Cinquanta Calderara passò lentamente, attraverso lo studio di Piet Mondrian, dall’arte figurativa all’Astrattismo. Nel 1959, col dipinto Rettangoli e quadrati, egli raggiunse il primo stadio di quella riflessione sugli assiomi di base dell’arte con cui avrebbe poi anticipato la futura Pittura Assoluta. Anche negli Stati Uniti, intanto, Robert Ryman e Agnes Martin, seguiti da Robert Mangold, si erano da tempo messi in cammino verso una pittura ermetica, del tutto immanente e concentrata sull’essenziale, dietro la quale agiva uno spirito quasi puritano di parsimonia, sobrietà e ascesi e nella quale venivano messi in risalto, sul piano estetico e in quanto fattori causali da cui origina il quadro, principi elementari, di tipo artigianale, della prassi pittorica. Ma anche in Italia, già intorno al 1960, alcuni artisti aderirono ai principi della purezza del medium. Di questa coraggiosa avanguardia fecero parte Mario Deluigi, Antonio Calderara, Francesco Lo Savio, Piero Dorazio e Angelo Savelli.
Il particolare momento storico in cui Claudio Verna fece il suo ingresso nelle sfere più intime dell’arte non gli consentiva ancora di scorgere gli ultimissimi sviluppi che, nell’ambito della pittura, andavano delineandosi in Europa e negli Stati Uniti e che in quegli anni emergevano a malapena nelle mostre. All’epoca regnavano ancora i seguaci confessi della comunità dei fedeli all’informale e nelle accademie erano ancora in carica e insegnavano i grandi dell’arte figurativa degli anni precedenti al 1945 (come per esempio Ottone Rosai a Firenze. Achille Funi e Pompeo Borra a Milano) oppure gli intermediari delle pratiche dell’Astrattismo libero, i quali all’epoca non si erano ancora resi conto di aver fatto il proprio tempo ma anzi, col loro entusiasmo e con la loro fiera coscienza di avere una missione da compiere, erano ancora in grado di trascinare con sé giovani adepti. Per quanto riguarda Claudio Verna, allora studente quasi ventenne, questa funzione venne svolta dall’artista fiorentino Vinicio Berti. Nato nel 1921, Berti era un pittore e curatore di riviste d’arte che, partito da posizioni politiche antiborghesi, dopo il 1945 era approdato all’Astrattismo. Ma negli anni precedenti al 1960 si fa fatica a inserirlo fra gli informali. Egli si considerava piuttosto un rappresentante dell’Astrattismo classico, come lui stesso ammise, fra I’altro, nel manifesto dal titolo Astrattismo classico che redasse nel 1950. Comunque stessero le cose, Claudio Verna decise, già negli anni della sua formazione, di esprimersi attraverso un linguaggio essenzialmente non figurativo e produsse quadri dal tratto fortemente mosso e libero e dalla gestualità espressiva, nei quali le notazioni di colore risultano a volte sciolte e a volte più dense, per finire poi col formare tessiture tumultuosamente intrecciate fra loro, le quali nascono da azioni del pennello di estrema rapidità e impulsività. La sua pittura veniva così a coincidere con gli standard figurativi ancora in auge alla fine degli anni Cinquanta e, volendo, sullo sfondo di questa sua orgiastica volontà di espressione si potrebbe veder affiorare la tragica figura di Wols, che Verna stesso una volta aveva indicato come uno dei suoi modelli più significativi. Eppure le opere del giovane Verna non condividevano in nessun punto con quelle di Wols – nato nel 1913 a Berlino, emigrato in Francia nel 1932 e lì internato agli inizi della seconda guerra mondiale – quell’angoscia esistenziale, quel doloroso tormento e quegli stati di delirio maniacale che ne fanno sconvolgenti esempi di un “automatismo psichico”. Gli “eccessi” che Claudio Verna metteva in atto provenivano invece, all’epoca, più dalla mano che dal cuore e si legge chiaramente, in queste sue prime prove pittoriche, il fatto che esse sono nate più da un entusiasmo e da un’impazienza creativa che non da un’atmosfera esistenziale di cambiamento epocale. Esse rappresentano esercizi nei quali un novizio dell’arte, mosso da un violento impulso all’azione, sfoga la propria voglia di dipingere e cerca di sincerarsi del proprio talento. Claudio Verna è, in questi anni, ancora alla ricerca della propria identità artistica ed esplora varie possibilità espressive. Ciò è provato anche dal fatto che, subito dopo questa fase esplosiva, egli perviene a una strutturazione più ordinata dell’impianto figurativo. Egli stesso indica, sorprendentemente, come punto di riferimento decisivo per questa svolta Nicolas de Staél, artista che, nato a Pietroburgo nel 1914, viene solitamente assegnato alla École de Paris, nonostante i suoi modi rappresentativi siano riconducibili non senza contraddizioni agli standard di quella scuola e nonostante egli non possa essere definito un pittore del tutto astratto. Le intenzioni di Nicolas de Staél, il quale morì suicida ad Antibes nel 1955, miravano a una sintesi di figurazione e astrazione. Egli dipingeva sia figure che paesaggi, esemplificandone però fortemente le linee in una serie di cubi, in modo che alla fine rimanevano, su uno sfondo per lo più ampio, soltanto degli addensamenti scarni e compatti di parallelepipedi colorati, a volte più grandi, a volte più piccoli, che egli realizzava applicando sulla tela densi e pastosi strati di colore e servendosi spesso della spatola o del mestichino. In un lavoro a tempera su carta, di dimensioni relativamente ridotte {70 x 90 cm). che Verna realizzò nel 1960 e che certo non a caso intitolò Cromopaesaggio (N.PR. 27), si potrebbe leggere un omaggio a Nicolas de Staél, poiché non c’è dubbio che in quest’opera si rifletta l’influsso di quel grande artista. Nelle testimonianze fin qui fornite del periodo iniziale della carriera di Claudio Verna sono già fissati i punti di partenza di due orientamenti che, all’interno delle diverse opzioni figurative, risulteranno decisivi per la sua opera futura: l’uno che lo induce ad applicare il colore sul supporto con una pennellata sciolta ed elastica, attraverso libere modulazioni e improvvisazioni, l’altro che lo spinge invece a imporre a sé stesso norme e regole e a tentare di dar vita a schemi costruttivi ordinati.
Questi elementi antagonistici, nei quali si può senza dubbio riconoscere il dualismo fra emotività e razionalità, affiorano alternativamente in fasi diverse dell’opera di Claudio Verna o anche, come termini interni di confronto, nell’ambito di una stessa opera. L’artista stesso lo ha confermato in un’intervista nella quale ha dichiarato: “fondamentale per me è il tentativo continuo di far coesistere, anzi di far diventare una cosa sola, le due spinte che animano la mia ricerca: il progetto e la passione, il controllo e l’abbandono, l’istinto e la ragione”14. Nella medesima occasione egli ha fatto professione di un altro credo per lui fondamentale. “Il codice che governa il mio lavoro”, ha affermato, “è il colore, la sua capacità di assumere i valori massimi della saturazione, della potenza luminosa {…). Tutto cambia, ma il colore rimane comunque protagonista assoluto con la sua capacità di determinare lo spazio e suscitare emozione”15. Questa ammissione ha, per l’attività creativa di Claudio Verna, l’importanza di un voto personale, poiché, se un continuum è rintracciabile negli sviluppi della sua opera esso è dato, indipendentemente dal susseguirsi delle concezioni figurative, dall’attivazione della forza del colore. E’ attraverso di essa che egli qualifica la sua esistenza artistica, quando afferma: “giunsi comunque alla conclusione che io non potevo fare a meno del colore, che potevo dirmi pittore solo esprimendomi con il colore”16. Con questo esordio Claudio Verna aveva trovalo la sua occupazione, ma non ancora la sua vocazione. Per quanto fosse certo, infatti, che volesse fare il pittore, rimaneva ancora aperta la questione della sua collocazione, sul piano dello stile, all’interno del vasto ambito della pittura, e del linguaggio col quale esprimere al meglio la propria personale idea di pittura. La situazione era ulteriormente aggravata dal disorientamento provocato dagli ultimi avvenimenti verificatisi sulla scena artistica.
Intorno al 1960 le fondamenta della pittura subirono infatti una scossa ancora più forte di quanto non fosse avvenuto in passato. Nel giro di poco tempo si verificarono profondi rivolgimenti riguardo a ciò che si dovesse intendere per arte e intervennero cambiamenti di paradigma, fino ad allora insospettabili, in riferimento a ciò che dovesse essere un’opera d’arte. Per un giovane innamorato della pittura tutto questo poteva rappresentare il crollo di un mondo e di una fede. Niente infatti era più come prima, e non erano pochi quelli che non capivano quali fossero i motivi e le ragioni che mettevano in moto il nuovo. Essi vivevano i nuovi eventi come una cacciata dal paradiso dei loro sogni artistici e vedevano attorno a sé solo provocazione e distruzione, quando non liquidavano come ciarlataneria tutto quanto non rientrasse nel canone delle norme artistiche da loro difese. In questo trovavano sostegno anche nei docenti delle accademie: molti di essi provenivano infatti da generazioni per le quali – indipendentemente dal fatto che la loro arte fosse orientata in senso figurativo o astratto – non c’era dubbio che pittura e scultura fossero, insieme alle pratiche tradizionali a esse connesse, le discipline centrali dell’arte, valide in eterno e sottratte a ogni tipo di critica. Quasi nessuno, fra gli appartenenti allo schieramento della cosiddetta “contemporaneità classica”, era in grado di comprendere il discorso in atto intorno al 1960 o di prendervi parte in maniera critica e competente, adducendo argomentazioni valide. Regnava, tra quei difensori dello status quo, tra quei paladini dell’ieri un atteggiamento ostile a priori, che contribuiva a emarginarli ulteriormente, cosicché essi non erano neppure in grado di fornire vere informazioni, vere spiegazioni e vere occasioni di discussione ai propri studenti, i quali, abbandonati a se stessi e privi di ogni sostegno intellettuale, assistevano al crollo del tempio dell’arte, crollo che rappresentava per non pochi, per quelli cioè che desideravano semplicemente dipingere, una vera e propria tragedia. Ma in realtà le prospettive per la pittura non erano poi cosi negative coma gli slogan che propugnavano la fusione di arte e vita avevano fatto credere inizialmente. Un osservatore attento della scena artistica dell’epoca avrebbe potuto notare come già agli inizi degli anni Sessanta fossero maturati, per il medium pittura, nuovi approcci che mettevano in grado questo antico genere di rispondere alle nuove esigenze con cui l’arte doveva confrontarsi, la qual cosa esso poteva realizzare solo interrogando se stesso e sottoponendosi a un processo sistematico di revisione intellettuale o, per dirla in breve, concettuale, senza per questo dover rinnegare i propri valori tradizionali.
Anche Claudio Verna avvertì la crisi e reagì inizialmente ritirandosi dagli ambienti artistici. Trasferì la propria residenza a Roma e si chiuse in un volontario isolamento, in modo da concentrarsi interamente sulla ricerca della via migliore da percorrere per sé e per i propri impulsi e interessi più profondi. Si dedicò a uno studio intenso dell’opera di quegli artisti che rivestivano in quel momento un ruolo da protagonisti nella scena artistica e che sostenevano di non voler più produrre dipinti. Ciò che gli interessava era guadagnare certezze e una lettura chiara degli eventi, ciò che desiderava era arrivare a conoscere l’origine, le motivazioni e le ragioni interne della mutata concezione dell’arte e imparare a comprendere i nuovi modi dell’espressione artistica. Egli saggiò anche la possibilità di mettere a frutto per il proprio futuro di artista forme ben precise del fare artistico, allora altamente lodate dalla critica e dai media. Fu, come egli stesso ha
ammesso in seguito, una “bella lotta fra la ragione e l’istinto”17 che si protrasse per anni, ma alla fine fu la “intima passione” a vincere e, quando nel 1967 riprese a esporre, Claudio Verna era definitivamente sicuro “che le ragioni della pittura sono antiche e irrinunciabili”18. È possibile seguire il consolidarsi della sua posizione di pittore attraverso l’esame del nuovo percorso artistico da lui intrapreso a partire all’incirca dal 1964. Risulta evidente che la chiave per comprendere questo suo nuovo inizio è da ricercare nelle più antiche manifestazioni della ragione umana, cioè la geometria e l’ordine costruttivo. Inizialmente egli crea delle strutturazioni regolari della superficie in modo però ancora libero, servendosi
di un processo di improvvisazione e di un tratto del pennello che si mantiene espressivo, ma già nel 1965 i contorni delle superfici e delle strutture formali si consolidano, cosicché queste ultime appaiono dotate di margini netti e precisi e fungono da supporto per il colore, steso adesso in maniera omogenea sulla tela. L’impostazione che dà alle sue opere si fa ora più sistematica, il che appare evidente in una serie realizzata a partire dalla fine del 1965 e protrattasi per tutto il 1966, intitolata Superficie modulare. In questi dipinti l’artista varia un modulo, il che offre al colore la possibilità di un’espressione autonoma. Nella serie Tempo presente, realizzata nel 1967, il modulo perde la sua funzione predominante, non riempie più il quadro ma comincia a isolarsi all’interno di una zona bianca che appare come una schermatura spaziale. Alla fine esso viene frantumato e spezzettato, per poi sparire del tutto, lasciando al proprio posto dei frammenti che appaiono quasi come fenomeni casuali all’interno di una struttura predeterminata. Dopodiché si afferma una tendenza crescente a semplificare l’ordine del quadro, tendenza che garantisce al colore una presenza ancora maggiore all’interno degli eventi figurativi. L’artista modifica ora l’entrata in scena autonoma del colore stesso servendosi di diverse varianti, il che contribuisce a consolidare la sua definizione di sé stesso come pittore legato al colore nel senso della Pittura Assoluta. Non di rado egli impiega il principio del relativismo coloristico, crea cioè rapporti di tensione, ponendo zone e superfici colorate, formalmente piuttosto vaste, in contrasto con fatti coloristici marginali e rudimentali. Fa comparire, ai bordi di forme colorate dominanti, delle sottili strisce di colore diverso, cosicché si ha l’Impressione che, sotto il primo strato, ci siano altre superfici sovradipinte che premono verso l’esterno. Non si sminuisce il valore di Claudio Verna se si confrontano questi dipinti con gli Edge Paintings di Sam Francis, realizzati fra il 1968 e il 1969, fermo restando che rimane aperta la questione di chi debba vantare la primogenitura di questa invenzione pittorica. Nell’opera dal titolo Ambiguo (N.CAT. 26) del 1967, l’artista inserisce nel quadro due ampie bande verticali, le quali presentano margini ben definiti ma non seguono un percorso rettilineo, sono invece leggermente ricurve, come se si torcessero, tanto da lasciare emergere strati sottostanti di colore, sottili e vivide strisce parzialmente visibili ai bordi delle fasce stesse. Una variante di questo gioco con i diversi pesi del colore è rappresentata dal dipinto Ancora nel bianco. (N.CAT. 27), anch’esso del 1967, nel quale compaiono come per caso, e solo nella parte destra di uno sfondo bianco monocromo, cinque strisce colorate molto sottili, non del tutto rettilinee, che, alcune dall’alto, altre dal basso, irrompono nel dipinto parallelamente ai bordi laterali, senza però mai raggiungere le prime il margine inferiore, le seconde quello superiore del quadro: esse si inoltrano nel quadro stesso a diverse profondità e, tutte, terminano a punta. Anche qui è in gioco una tensione tra superficie e frammenti che consente di visualizzare in maniera efficace un fenomeno puramente coloristico. Simili tematizzazioni delle relazioni prodotte da costellazioni figurative basate interamente su regole interne al quadro, e nelle quali l’interezza di una calma superficie di colore viene intaccata, o perlomeno contaminata e contrastata, dall’intervento di rudimentali accenti coloristici – sia che essi partano dai margini del quadro che dal suo interno – si ritrovano in seguito in numerose formulazioni figurative di Claudio Verna. La tipologia delle forme, vale a dire la maniera di impostare le fasce, le strisce, le bande, le superfici è ancora caratterizzata, fino al 1969, da configurazioni nettamente definite, che presentano contorni accurati, tracciati con la riga, e gli schemi che articolano il quadro sono riconducibili a componenti di provenienza geometrica. Con i loro margini perfetti, gli elementi formali danno l’impressione di essere stati realizzati con l’aiuto di maschere, e in effetti è così. Una composizione in senso classico, vale a dire nel senso della strutturazione complessa di un insieme di forme poste in un rapporto di equilibrio o di subordinazione l’una rispetto all’altra, non esiste nei razionali organismi figurativi di Claudio Verna. Questo non solo disturberebbe il primato del colore, ma lascerebbe penetrare nell’impianto del quadro indizi di un intervento soggettivo che pregiudicherebbe le potenzialità autoespressive dell’opera. Claudio Verna predilige essenzialmente principi euclidei e configurazioni simmetriche, ovvero cornici che formano angoli retti, strisce e bande che attraversano il quadro per lo più in orizzontale, ma qualche volta anche in verticale. Egli dà vita a delle ripartizioni lineari nelle quali fasce parallele, equidistanti l’una dall’altra, creano un’articolazione regolare, oppure varia la distanza tra le fasce o crea delle griglie costituite da strisce rettilinee che si incrociano e possono anche essere di colori diversi. In alcune opere restringe le griglie, cosicché ne emerge una fitta quadratura, vale a dire un sistema di coordinate che ricopre la superficie del quadro per intero, fino ai margini, in alcuni casi l’artista sceglie anche delle ripartizioni diagonali. Ciò che gli preme, comunque, è che l’impianto formale del quadro risulti quanto più fermo e statico possibile, in modo che il ruolo attivo spetti al colore.
Al più tardi a partire dal 1969 compaiono, nel contesto degli schemi costruttivi appena descritti, i primi segni di una maniera più sciolta di stendere il colore sulla tela, un fenomeno visibile, ancora una volta, soprattutto nelle aree marginali, laddove cioè una forma finisce e va a confinare con una zona vicina, come nei quadro A 17 (N.CAT. 130) del 1970, nel quale – come nel famoso Quadrato nero su fondo bianco di Kazimir Malevic, opera del 1913 – un quadrato rosso è collocato al centro di un dipinto anch’esso di formato quadrato. Il quadrato di Claudio Verna è segnato sulla tela con grande precisione, secondo i metodi del disegno tecnico, servendosi cioè di riga e compasso, cosicché il segno preliminare risulta nella sua linearità, ancora visibile e contribuisce all’impianto figurativo del quadro. Ma con l’intervento del colore subentra un momento di improvvisazione attraverso il quale la razionalità della geometria viene fatta dialogare con aspetti legati all’emotività e alla sensitività. Sono appunto questi i fattori che si riscontrano in quegli anni -siamo all’incirca tra il 1970 e il 1975 – nella sua opera. L’artista tende verso soluzioni figurative nelle quali, minimizzando le componenti formali del quadro per dare più spazio all’espansione del colore e per intensificarne la profondità e la forza luminosa, raggiunge una quasi totale monocromia. E’ quanto accade nell’opera A 162 ( N.CAT. 275) del 1972, che dà l’impressione visiva di un bianco quasi assoluto, ma che è invece costituita da nove sezioni verticali di uguale ampiezza, le quali presentano una configurazione cromatica cosi chiara e delicata che è possibile distinguerle, dal punto di vista visivo, solo per il fatto che l’artista le mette in contrasto fra loro alternando i tenui colori in uno sfumato chiaroscuro. Questa impressione di chiarore è però il risultato di una sovrapposizione di strati di colore, ottenuta realizzando dapprima le varie sezioni in colori differenti e ricoprendole poi a poco a poco con delle velature bianche. Con quadri di questo tipo e con altri ancora, caratterizzati da un modo di procedere meditato e da un impiego calcolato dei mezzi, Claudio Verna raggiunge il punto che lo ha reso uno dei protagonisti più rilevanti della Pittura Assoluta. Gli inizi degli anni Settanta segnano infatti il culmine di quella tendenza che già da tempo era venuta formandosi attraverso gli approcci isolati di singoli artisti, ma che solo ora veniva riconosciuta come fenomeno stilistico programmatico e definita sul piano critico. La serie delle mostre che affrontavano il tema della Pittura Pura prese il via proprio al momento del passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta. Veniva cosi messa a fuoco un’accezione del dipingere basata su principi severi, la quale imponeva alla pittura di tornare in un certo qual modo a sé stessa e fondava un programma nel quale era all’ordine del giorno, in primo luogo, il chiarimento dei presupposti fondamentali della pittura stessa. Viva era però anche l’esigenza di attivare, sul piano estetico, potenziali pittorici presi in sé, il che implicava la rinuncia a tutto ciò che non rientrasse in maniera genuina nel repertorio artigianale, metodico e materico della pittura.
Claudio Verna aveva raggiunto già da tempo una consapevolezza in questo senso. Nella seconda meta degli anni Sessanta aveva acquisito piena contezza delle sue vere intenzioni artistiche, la sua volontà creatrice aveva assunto un orientamento ben conscio dei propri obiettivi. Egli era senza dubbio uno di quegli artisti che avevano spontaneamente elaborato il programma di una pittura pura, e che, indipendentemente l’uno dall’altro, in Italia come in Francia, in Germania e negli Stati Uniti, si impegnavano in un compito che avevano imposto a se stessi. Claudio Verna aspirava a una pittura di assoluta originalità, una pittura capace di mantenere uno status di piena autonomia, non determinato da condizioni esterne che potessero in qualche modo relativizzarlo. Quella che auspicava era un’arte da percepire e comprendere solo in base alla sua propria essenza, un’arte che non raffigurasse o simbolizzasse alcunché, né tentasse di rappresentare o rievocare quello che le stava intorno. Ciò che conta, in questo modo di vedere la pittura, sono unicamente le sue ragioni intrinseche, vale a dire quei mezzi e procedimenti primari attraverso i quali un dipinto si concretizza sul piano materiale e acquisisce una presenza visiva. Per dirla in altre parole, l’attenzione è rivolta ora ai fattori basilari del dipingere, al supporto come superficie portante della pittura e quindi al colore e alle sue diverse possibilità di impiego in quanto materiale pittorico. Il colore viene indagato in tutte le sue caratteristiche, le quali, oltre alla composizione chimica (colori a olio, acrilici, tempere, vernici ecc.), comprendono la consistenza materica, le condizioni di utilizzazione e le proprietà fisiche, nonché le modalità di applicazione sulla tela (colore diluito, liscio o pastoso, omogeneo o strutturato ecc.) e la tessitura. L’analisi delle differenze nell’uso dei colori a olio rispetto a quelli acrilici ha sempre rappresentato per Claudio Verna un impegno fondamentale, che si è ripercosso sui modi di realizzazione delle sue opere. Per gli artisti di questa tendenza assume grande importanza, oltre al colore, lo strumentario utilizzato in pittura, insieme alle tecniche e pratiche specifiche del suo impiego. Le procedure pittoriche esplicate con lo strumento classico per eccellenza, il pennello, vengono considerate fattori efficaci della figurazione e finanche il tipo di pennello, la sua forma e grandezza, trovano un’esemplificazione sul piano pittorico. Ma molti rappresentanti di questo orientamento fanno uso anche di altre modalità di applicazione del colore: essi utilizzano la spatola, già spesso impiegata in passato, soprattutto il rullo, o si servono della tecnica dell’airbrush.
Di concetti figurativi riguardanti la riduzione della pittura esclusivamente a dati di fatto materici e strumentali si occuparono negli anni Sessanta, in maniera completamente indipendente l’uno dall’altro, diversi artisti europei e americani. Del resto anche i precursori della Pittura Pura erano stati generalmente degli isolati. Ciò non toglie che sussistessero delle eccezioni, come per esempio il gruppo francese BMPT, nel quale si erano riuniti, in nome di un obiettivo comune, gli attivisti Daniel Buren, Oliver Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni. A partire dal 1967 essi misero in atto una forma particolarmente radicale di scomposizione della pittura in elementi fondamentali, e nel fare questo trovarono appoggio in teorie che potremmo definire di tipo linguistico e strutturalistico. Essi isolarono, con una metodologia decisamente analitica e accurata, le unità strutturali di base della pittura, tematizzandole, senza porsi problemi di significato, sul piano puramente formale. Niele Toroni ridusse per esempio il suo vocabolario alle impronte di un pennello di forma e dimensioni ben precise (N. 50), impronte che riproduceva, a distanze sempre uguali, su tela o anche su carta o materiale plastico. Daniel Buren, che si considerò sempre un pittore, dipingeva strisce verticali colorate, alternate a strisce bianche della stessa larghezza (8,7 cm), che poi sostituì con normali stoffe da tendaggio. Date le loro modalità creative fortemente dipendenti da speculazioni intellettuali di tipo teorico, Toroni e Buren vengono classificati nella storia dell’arte anche come rappresentanti della Concept Art, e de! resto la Pittura Analitica viene solitamente interpretata come una sottocategoria dell’approccio concettuale. Ciò accade anche per non pochi altri artisti che si sono confrontati con la produzione di pittura pura. Un esempio per tutti è la pittrice americana Marcia Hafif, la quale ha fondato il suo lavoro su di un manuale – l’opera classica Das Maimaterial und seine Verwendung im Bilde (il materiale della pittura e il loro impiego nel quadro), redatta ne! 1920 da Max Doerner, e ha sempre considerato le sue opere, nelle quali segue fedelmente le linee guida di Doerner, come un ritorno della pittura a principi di ordine tecnico. Il gruppo francese Supports-Surfaces, che si presentò per la prima volta al pubblico con l’omonima mostra del 1970, perseguiva, come si può dedurre dal suo nome, obiettivi simili, che potremmo definire di tipo analitico. Di Robert Ryman, il quale sollevò tra l’altro la questione della parete intesa come parte integrante dell’opera che vi viene esposta e teneva a precisare che i suoi lavori non erano “pictures” ma “paintings”, abbiamo già parlato. Dobbiamo tuttavia ricordarlo ancora una volta, poiché sia lui che gli artisti del gruppo BMPT, come di Supports-Surfaces, sono in realtà i rappresentanti di quel fenomeno che definiamo Pittura Analitica in senso stretto. Il modo di procedere di questi artisti risponde al concetto di “analisi” che, considerato dal punta di vista etimologico, vuol dire “scomposizione”, mentre dal punto di vista pratico è la “indagine sistematica di un oggetto o di un fatto in riferimento alle singole componenti o fattori che lo determinano”19. Ciò per chiarire gli aspetti semantici del concetto di “pittura analitica”, concetto che viene adoperato a mio parere con scarsa sensibilità linguistica, e questo ogni volta che lo si impiega per definire nel complesso una corrente artistica il cui comune denominatore è la ricerca dell’essenziale e dell’assoluto in pittura, ma che contempla, al suo interno, una grande diversità di approcci.
Questo dato di fatto acquista peso soprattutto nel momento in cui si guarda all’opera di artisti che hanno praticato una pittura concentrata sul linguaggio dei mezzi puri, ma ai quali premeva, più che una “scomposizione”, il suo esatto contrario, vale a dire una “sintesi”, un tutto immanente, in sé concluso. A guardare le cose da questo punto di vista, Claudio Verna non va considerato un analitico nel senso della corretta definizione del termine. Ciò che a lui interessa non è scomporre a scopo dimostrativo i singoli elementi figurativi, sezionarli e isolarli, egli mira piuttosto a fare in modo che l’opera susciti un’impressione di totalità e che in essa si realizzi il concorso sinestetico di tutte le diverse componenti. Queste intenzioni appaiono rafforzate anche dal fatto che – perlomeno nei lavori precedenti al 1976 – egli costringe gli eventi del quadro in uno schema e in un ordine stabili. Questa tendenza alla misura e alla geometrizzazione è evidente perfino nei dipinti nei quali il colore riempie il quadro fin quasi ai margini, in modo da suscitare un’impressione di monocromia. Anche in questi casi Claudio Verna crea punti di riferimento topografici, vale a dire segnali di orientamento spaziale, tracciando sulla superficie, con degli archi di compasso il cui centro è costituito dagli angoli del dipinto, delle tenui croci, le quali nascono di volta in volta dal punto di intersezione di due archi. In opere di questo tipo egli lavora spesso anche col principio del quadro nel quadro, lasciando cioè libera una zona marginale del dipinto che risalta come una cornice, fino alla quale si inoltra il campo di colore interno. Lungo la linea di confine tra il campo interno e la cornice esterna hanno luogo delle libere modulazioni, nelle quali un colore contrastante preme dallo sfondo. L’artista stesso ha commentato il dipinto A 3 (N.CAT.115), del 1970, in questi termini: “Lo spazio della tela acquista identità con la presenza dei quattro segni che orientano la superficie. Le stesse croci interrompono l’impersonalità del quadro A 145 (N.CAT. 258), del 1972, che, come l’altro, acquisisce soggettività grazie alla presenza delle sbavature sul bordo. Di conseguenza si attua un incessante dialogo tra geometrie e colore. […] La presenza della geometria, i suoi segni e le croci tracciate con il compasso sono i simboli di una razionalità che tenta con ogni mezzo e senza successo di afferrare la pittura”20. Interessante è, in queste parole dell’artista, il momento idealistico, che si esprime nel confronto tra emotività e razionalità, ovvero tra colore e geometria. Si è quasi tentati di illustrare questo dialogo con esempi tratti dalla storia delle religioni: si pensi allo Zoroastrismo o allo Gnosticismo, dottrine in cui dualismi quali quello fra luce e oscurità o tra bene e male racchiudono importanti nessi semantici.
In ogni caso i principi dualistici non sono rari nei commenti di Claudio Verna alle proprie opere ed essi si richiamano a un elemento spirituale completamente estraneo all’atteggiamento oggettivistico di quegli artisti che fanno scaturire il proprio operato da un freddo concettualismo. Nei lavori di Claudio Verna si verificano non di rado delle misurate interferenze e irregolarità sul piano formale, vale a dire coloristico, le quali suggeriscono degli eventi interni al quadro pilotati dall’artista. Ciò contravviene alla teoria in base alla quale le opere analitiche in senso stretto non devono esibire altro che il puro darsi di elementi primari, cancellando qualsiasi traccia di un intervento soggettivo. Questa registrazione obiettiva e questa esibizione neutrale, sul piano dei valori, di dati di fatto formali e coloristici quanto più semplici possibile non si riscontrano in Claudio Verna. Egli non smette mai del tutto di essere l’autore dell’ordinamento del quadro e il regista degli eventi che in esso si verificano, come si evince, per esempio, dal confronto fra le strisce verticali di Daniel Buren e le strisce o bande da lui realizzate in alcuni dei suoi dipinti. Mentre le strisce di Buren sono assolutamente uniformi, seriali e anonime, in quelle di Claudio Verna accade sempre qualcosa, fosse pure soltanto l’effetto luminoso di un sottile orlo colorato ai bordi della striscia stessa, portata a questo scopo dall’artista leggermente fuori dalla verticale. A impedire l’inserimento dell’opera di Claudio Verna nel sistema di riferimento della Pittura Analitica o della Concept Art c’è poi un ulteriore aspetto, e cioè l’attrazione sensoriale che i suoi dipinti esercitano sull’osservatore. Il loro richiamo estetico deriva dalla qualità di una pittura squisitamente raffinata ad elaborata. Questo elemento mette in evidenza tutto il potenziale esperienziale dell’artista, accumulato in un’epoca in cui il tratto agile e virtuoso e la forza d’improvvisazione avevano ancora valore e venivano visti come un progresso e una conquista nel processo di emancipazione della pittura moderna. Considerati come una manifestazione di talento e di provata maestria, nonché come un segno di forza espressiva, questi fattori rivestivano un’importanza enorme in anni in cui risultava ancora ovvio che la fruizione di un’opera d’arte è anche una forma di godimento estetico, in questo senso si potrebbe risalire fino ai maestri del tardo Impressionismo o dell’informale spontaneo. E proprio l’arte italiana del dopoguerra può vantare a questo riguardo un’eccellente cultura pittorica, di cui Afro Basaldella è un singolare rappresentante. Claudio Verna lo annovera fra gli artisti che lo hanno influenzato.
A conclusione di questo excursus si può affermare che l’opera di Claudio Verna andrebbe piuttosto considerata come una variante della Pittura Assoluta, nella quale si presta particolare attenzione alle qualità estetiche del colore e alla sua immanente capacità espressiva. La versione più rigidamente oggettivizzata della Pittura Pura, che lavora basandosi su metodologie analitiche e concettuali, non corrisponde appieno alle sue modalità creative. A sostegno di questo modo di vedere l’opera di Claudio Verna, concorre anche il fatto che egli non esegue mai disegni preparatori per i suoi dipinti, il che vale a dire che rinuncia del tutto a una progettazione di tipo formale e concettuale. Se proprio si volesse affiancare Claudio Verna ad altri artisti, questi dovrebbero essere rappresentanti tedeschi della tendenza assoluta quali Gotthard Graubner e Ulrich Erben. Quest’ultimo soprattutto aveva fondato a partire dal 1968, con i suoi “quadri bianchi”, un linguaggio della “Pittura elementare” – come suonava il titolo di una delle sue mostre – nel quale risultano fondamentali principi contraddittori quali “armonia apollinea e dionisiaca ebbrezza coloristica”21, insieme a un invito alla contemplazione che implica una dimensione irrazionale e spirituale quale quella già preannunciata dai dipinti di Mark Rothko o dai “corpi spaziali colorati” di Gotthard Graubner. Con questa ampia gamma di realizzazioni, in cui investigazioni oggettive e rigorosamente razionali della pittura stessa si affiancano a interpretazioni per le quali anche i valori estetici risultano compresi tra i fattori di un’autoespressione elementare dei mezzi, intorno al 1970 acquisì piena concretezza quel fenomeno che venne inizialmente definito Pittura Progettata o anche Pittura Pura. Venne cosi formandosi – in prosecuzione di un continuum già attestatele a partire dagli anni Cinquanta negli approcci individuali di singoli artisti – una nuova definizione di pittura, definizione che sul piano teorico e pratico si articolava in modo tale da rappresentare una risposta adeguata al nuovo concetto di arte. Dovettero infatti essere sottoposti a una revisione quasi tutti i dogmi che l’avevano retta fino ad allora e le norme su cui si era basata la sua immagine di se stessa. Ciononostante l’esame critico e la chiarificazione teorica della Pittura Assoluta si rivelarono particolarmente difficili, più di quanto non fosse mai accaduto per le altre posizioni stilistiche dell’arte contemporanea, per le quali era di solito stata fornita o inventata fin da subito una formula che potesse connotarle in maniera adeguata. Risulta sorprendente anche il ritardo con cui si affermò la coscienza dell’autonomia di questa forma di pittura. I primi tentativi di definirla fecero infatti la loro apparizione quando già da tempo erano state trovale le soluzioni decisive, quelle che avrebbero spianato la strada ai successivi sviluppi.
Qualora si volesse risalire agli inizi di una percezione della Pittura Assoluta in quanto tale, il primato spetterebbe in ogni caso all’Italia. Nel 1972 venne infatti allestita a Trieste, presso il Centro di Ricerche Audiovisive La Cappella, una mostra dal titolo Per pura pittura – La nuova astrazione oggi in Italia, nella quale Gianni Contessi tracciò !e linee di una tradizione di questo orientamento pittorico dagli americani fino ai suoi rappresentanti europei, dando particolare rilievo, tra i precursori, a Francesco Lo Savio. Ma anche negli Stati Uniti aveva preso il via, ne! frattempo, una tematizzazione della tendenza, e ciò era avvenuto grazie a un saggio del critico Douglas Crimp. Nel 1973 Crimp aveva effettuato un’analisi nella quale risultavano già abbozzate e impostate le prime definizioni di quelle porzioni pittoriche che furono poi denominate in Italia “Nuova Pittura”, in Francia “Nouvelle Nouvelle Peinture” e in Germania, almeno inizialmente. “Geplante Malerei” {Pittura Progettata). Il testo di Douglas Crimp fece anche da base per la mostra Arte come arte, allestita a Milano nel 1973 e dedicata principalmente ad artisti americani. Nel catalogo che la accompagnava, oltre a Crimp, anche Germano Celant compì lo sforzo di formulare delle tesi finalizzate a una valutazione critica di questa categoria della pittura. Nello stesso anno lo storico e critico d’arte Maurizio Fagiolo organizzò a Verona quella mostra che, sulla scia del Dadaismo, recava l’ironico titolo iononrappresentonullaiodipingo, una mostra che fece epoca e nella quale vennero esposte esclusivamente opere di artisti italiani. Fu in quell’occasione che Fagiolo introdusse la definizione tautologica di “Pittura/Pittura”, un’invenzione verbale che dava del fenomeno un’interpretazione chiara e inequivocabile. Fece poi da apripista, anche per la riflessione degli artisti, il collegamento, da lui effettuato, degli obiettivi della Nuova Pittura, ovvero della Pittura/Pittura, con le metodiche dello Strutturalismo e della linguistica. Sempre nel 1973 vennero organizzate in Italia altre mostre sulla “Nuova Pittura”, come per esempio Tempi di percezione a Livorno, Un futuro possibile a Ferrara, Fare pittura a Bassano e La riflessione sulla pittura ad Acireale. Nel catalogo di quest’ultima mostra venne pubblicato un saggio fondamentale di Filiberto Menna, nel quale egli esaminava quell’aspetto decisivo della nuova pittura che, da allora in poi, venne a corrispondere con una crescente tendenza alla sistematizzazione e con la coincidenza di prassi pittorica e riflessione sulla pittura. Pare che Filiberto Menna abbia fatto ricorso già allora al concetto di “pittura analitica”, rimane però il fatto che negli anni Settanta, nel periodo cioè in cui questa forma di pittura visse il momento di sua massima espressione, questa definizione non venne mai adoperata né nelle mostre né nelle pubblicazioni.
Le mostre di cui si è detto sopra hanno sempre visto le opere di Claudio Verna occupare una posizione di primo piano, egli è stato fra i protagonisti fondamentali della nuova pittura. Il concetto di “pittura analitica” venne formulato per la prima volta in Germania, dove intanto era nato, nell’ambito della Pittura Assoluta, uno scambio con l’Italia, e ciò grazie alla profonda amicizia tra il pittore italiano Gianfranco Zappettini e il pittore tedesco Winfred Gaul, amicizia alla quale aderì, in qualità di promotore dell’opera dei due artisti, anche l’allora direttore del Westfalischer Kunstverein di Münster, Klaus Honnef, che pubblicizzò il fenomeno in una serie di saggi e mostre. E così nella primavera del 1974 fu organizzata a Münster la mostra Geplante Malerei (Pittura Progettata), titolo che proponeva una nuova definizione concettuale della tendenza. La stessa mostra, per quanto leggermente ridotta nella scelta delle opere, ma d’altra parte integrata da lavori di Agnes Martin e Robert Mangold, fu inaugurata nell’autunno dello stesso anno alla Galleria Il Milione di Milano. La galleria curò la pubblicazione di un catalogo in cui era contenuto un saggio di Honnef nel quale egli introduceva per la prima volta – stando a quanto lui stesso ha affermato – il concetto di “pittura analitica”. Questa definizione divenne poi il titolo di una mostra organizzata nel 1974 a Bonn e curata da Klaus Honnef in collaborazione con Catherine Millet, nonché una categoria nell’ambito di documenta 6 del 1977, manifestazione per la quale Honnef, insieme a Evelyn Weiss, vicedirettrice del Museo Ludwig di Colonia, fu responsabile della sezione pittura e che concepì con l’intenzione di farne, secondo le sue stesse parole, “un trionfo della nuova pittura”. Tuttavia quello che “doveva essere il trionfo della nuova pittura divenne la sua (evidentemente provvisoria) Waterloo”22 come Honnef stesso ammise in seguito in un rassegnato resoconto. La mostra successiva, organizzata nel 1978 presso il Rheinisches Landesmuseum di Bonn e intitolata Bilder ohne Bilder (Immagini senza immagini), ebbe soprattutto lo scopo di tracciare un bilancio e fare in modo che si acquisisse coscienza del fatto che si era conclusa “una fase della storia della pittura occidentale”23 e che le “immagini senza immagini” rappresentavano “insieme la fine e l’inizio della pittura”24, poiché con un “rigore senza pari esse hanno fatto sì che il problema della pittura venisse esaminato nei suoi fondamenti più essenziali, portando cosi a conclusione uno sviluppo lungo un secolo. […] Per questo la pittura “senza immagini” rappresenta in un certo qual modo il compimento dell’arte contemporanea”25. Nonostante movimenti concorrenti quali l’Arte Povera, il Minimalismo o la Conceptual Art dominassero la scena artistica, negli anni Settanta l’interesse per la tendenza assoluta raggiunse il suo culmine, come dimostra il gran numero di mostre dedicate a questo aspetto della pittura. Ne sono un esempio quella olandese dal titolo Fundamentele Schilderkunst, organizzata nel 1975 da Rini Dippel allo Stedelijk Museum di Amsterdam, e quella francese dal titolo Abstraction analytique. allestita nel 1978 al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. In seguito la Nuova Pittura, detta anche Pittura Pura, Pittura Autonoma, Pittura Elementare, Pittura Assoluta, Pittura Essenziale, Pittura Analitica – come in realtà questa tendenza era sempre stata denominata – continuò a rimanere attuale. Solo intorno al 1980 sembrò che si fosse cessato di parlarne e che la Nuova Pittura fosse uscita di scena, ma essa vi fece presto la sua riapparizione, seppure con nomi diversi. Nel 1984 una mostra dal titolo Radical Painting, allestita presso il Williams College Museum of Art di Williamstown, nel Massachusetts, riportò la discussione sul tema della Pittura assoluta, ma stavolta i protagonisti si chiamavano Joseph Marioni, Marcia Hafif, Günther Umberg e Jery Zeniuk.
Il motivo per cui oggi in Italia si sia imposta la denominazione “Pittura Analitica” – la quale si è quindi rivelata la più duratura nel tempo – per designare l’intero fenomeno dalla Pittura Assoluta non è del tutto chiaro. È stato infatti proprio un artista italiano. Gianfranco Zappettini, a definire, insieme a Klaus Honnef, i confini di ciò che va considerato analitico in pittura, confini per lui cosi ristretti che solo una minoranza degli artisti che mirano alla purezza dei mezzi può rispondere a un’accezione tanto specifica. Per di più il concetto di “pittura analitica” è stato adoperato a malapena in Italia negli anni Settanta e in quelli immediatamente successivi, per cui il suo uso non può essere giustificato neppure sul piano storico. Fu soltanto nel 2003 che la denominazione riapparve in modo esplicito nel titolo della mostra Pittura analitica – Una ricognizione storica – Italia 1966-1978, curata da Marco Meneguzzo e allestita presso il Museo Angelo Bozzola di Galliate. La definizione ha accompagnato, lasciando un segno nel titolo, anche la mostra Pittura 70 – Pittura/Pittura e Astrazione Analitica, realizzata nel 2004 dalla Fondazione Zappettini a Chiavari e dalla Civica Galleria d’Arte Moderna a Gallarate. Nel 2007 l’aggettivo “analitica” ritorna poi nel titolo del volume La linea analitica della pittura, curato da Alberto Fiz e pubblicato dalla Silvana Editoriale, nonché nel titolo del Volume 6 della collana della Fondazione VAF, Pittura Analitica, curato da Marco Meneguzzo e dall’autore del presente saggio e pubblicato nel 2008 come catalogo di accompagnamento alla mostra omonima, allestita dallo stesso Meneguzzo presso il Palazzo della Permanente di Milano. E’ dunque quasi esclusivamente in Italia che l’espressione “Pittura Analitica” si è cristallizzata – per di più con un certo ritardo – come definizione generale di un movimento in sé molto diseguale, mentre nella relativa letteratura internazionale e nei lessici specialistici viene definita analitica solo quella severa e rigida tendenza che, solitamente inquadrata nel contesto della Minimal e della Conceptual Art, fu caratterizzata da un estremo riduzionismo. Per un confronto si consideri con quanta scrupolosità linguistica e precisione terminologica venne invece stabilita, a suo tempo, la differenza tra “Cubismo analitico” e “Cubismo sintetico”.
Nel lavoro artistico di Claudio Verna non sono rintracciabili né un ethos puritano né una volontà radicale di scomposizione e controllo. Egli non smembra né seziona l’organismo pittorico, non separa i suoi dati primari dal contesto generale, per poi selezionarli come singoli aspetti da portare sulla tela a scopo dimostrativo. I dipinti che Claudio Verna ha realizzato all’incirca fino al 1978 si fondano sempre su principi formali intenzionali, il che vuol dire semplicemente che egli presenta nelle sue opere dei fenomeni visivi nei quali concretizza – all’interno di situazioni e costellazioni pianificate in maniera assai meditata e consapevole – stati, eventi e potenziali espressivi del colore. La sua opera non reca tracce di una volontà di trattare gli elementi del quadro come fatti neutrali, i quali non lascino intendere di essere i prodotti di una volontà soggettiva, invenzioni dovute all’attività creatrice di un individuo. I segni del fare manuale e dell’attività regolatrice di un artefice sono sempre visibili nei suoi dipinti, le tracce di quel fare e di quell’attività fungono anzi da accenti visivi nell’effetto finale del quadro, da fattori pittorici che rispondono a una poetica immanente. Ciò vale soprattutto nelle situazioni in cui è la relazione tra dense tessiture e un tratto sciolto del pennello a strutturare il quadro o in cui viene data forma a stati di tensione che si producono quando una sorta di dialogo, di conflitto o di prevaricazione vengono visualizzati con mezzi coloristici. La tecnica del non finito, cui egli spesso ricorre per creare un certo effetto, ha sempre, nelle sue opere, uno spiccato fascino pittorico. Si confrontino, a questo riguardo, quelle parti dei dipinti di Claudio Verna che presentano simili effetti, e che sono solitamente piuttosto elaborate, con i freddi “unfinished paintings” di Robert Ryman per comprendere la differenza tra una pittura appassionata, che non intende rinunciare agli effetti coloristici, e un oggetto impersonale, prodotto a scopi dimostrativi.
Nella seconda metà degli anni Settanta si rafforza, nell’opera di Claudio Verna, questo impeto puramente pittorico. Egli stesso commenta il fenomeno con le seguenti parole: “Arrivo cosi al 1977, anno per me decisivo. L’esperienza della pittura-pittura era alla fine, e i pastelli ancora una volta mi indicarono come venirne fuori. Passai tutto l’anno a fare pastelli affidandomi all’oscillazione naturale del braccio, del polso e delle dita per una specie di scrittura automatica, autonoma dagli schemi, ma tutta interna alla mia idea di pittura. Mi sentii nuovamente libero e in grado di continuare la mia ricerca, rinnovandola. […] Ma anche nei quadri, come nei pastelli, il disegno è come interno, connesso alla struttura del colore. L’opera è il risultato di un processo in cui ogni pennellata conserva la sua autonomia e la sua energia”26. I dipinti che Claudio Verna realizza a partire dal 1978 sono la manifestazione concreta di queste parole. L’artista nega qualsiasi norma che possa denunciare l’opera regolatrice della geometria e cancella ogni segno di un ordine consolidato del quadro per dare libera espressione al suo temperamento pittorico. Dipinti come Pittura (N.CAT. 509) e Understatement (N.CAT. 539) entrambi del 1978, o Episodio (N.CAT. 586) del 1980, appaiono come l’esplosione di un’energia istintiva a lungo arginata e repressa, che si manifesta ora in un’esercitazione pittorica veloce e sussultante, mossa da una spinta all’azione, esecuzione nella quale sono gli effetti visibili e le tracce di un impiego energico del pennello, nonché le condizioni materiche e strutturali del colore, a decidere del contenuto espressivo del dipinto. Questi quadri si presentano come dense sovrapitture. Nei primi esempi di questa nuova fase la superficie del quadro è infatti riempita quasi interamente da una tessitura coloristica che forma un all over che può interrompersi precocemente ai bordi del dipinto per portare allo scoperto la gestualità del pennello e tematizzare anche l’impeto espressivo come momento significativo nell’effetto finale del quadro. Questo modo energico e impulsivo di dipingere si afferma vieppiù col tempo, e nei lavori degli anni Ottanta domina un “furioso” pittorico nel quale si può quasi riconoscere un ritorno a concezioni informali. Le tracce delle operazioni compiute col pennello si fanno più accentuate e più chiaramente visibili, il tratto appare più marcatamente sciolto, tanto che le rotazioni del pennello risultano afferrabili – sotto forma di singoli segni o impronte depositate frettolosamente sulla tela – sul piano visivo. E tuttavia di tanto in tanto, come per esempio in Ciò che resta di ali fratte, (N.CAT. 769) opera del 1989, ritornano caratteri formali di una certa solidità, stavolta però con modalità che per Claudio Verna risultano nuove. Il titolo di quest’ultimo dipinto è un’allusione ai frattali, cioè a quella forma di geometria che, contrariamente a quanto avviene nella geometria euclidea, non contiene elementi semplici come la retta, la circonferenza ecc.. ma figure complesse e “fratte”, quali si rinvengono anche in natura. In effetti in questo dipinto ricompaiono strutture formali, seppure irregolari, disseminate sulla superficie, le quali assumono configurazioni tali da sembrare il risultato di processi di coagulazione del colore. Nel periodo successivo alla fine degli anni Settanta quest’ultimo si è trasformato sempre più in una fonte di energia che domina, all’interno della drammaturgia figurativa, l’intensità dell’espressione. Claudio Verna saggia ora, con varianti sempre nuove, le più diverse gradazioni del colore: i più insoliti timbri e le più inusuali combinazioni e atmosfere coloristiche, aumentando contemporaneamente anche la presenza e la luminosità del colore.
I segni di una pittura espressiva, basata sul colore, caratterizzano, seppure con vicende alterne, anche la sua produzione successiva, nella quale risultano però progressivamente mitigati quegli effetti visivi che si offrono a volte con eccessiva perentorietà all’osservatore e sono dovuti a un gesto spontaneo e a un’indomita dinamica dei ritmi. Negli anni 2000 la tessitura del colore torna a farsi densa, e in più viene ristabilito lo all over, nel quale viene ora – come già in passato – impiantato, attraverso i! tracciamento di piccole croci dalla disposizione regolare, un principio di ordine e sistematicità che, ancora una volta, ha la funzione di fornire stabilità a uno spazio e a una luce che tenderebbero a espandersi senza limiti in ogni direzione. Contemporaneamente però l’artista realizza, con sempre maggiore frequenza, anche dipinti nei quali le tracce di un impiego gestuale del pennello sono a malapena percettibili e nei quali egli predilige un colore diffuso, sfocato e nebuloso, che si concentra però talvolta in una sorta di macchie e nuvole, cosicché nel continuum coloristico compaiono isole di colorazione contrastante. Ciò suscita una serie di associazioni che richiamano alla mente conglomerati di materia cosmica o concentrazioni di particelle di polvere galattica sparse nell’universo. Al tempo stesso però questi conglomerati e queste concentrazioni sono privati della loro materialità fisica e tattile, tanto che sembrano essere piuttosto delle entità sferiche o fluide interpretabili come fenomeni eterei che virano verso l’immaterialità dell’atmosfera e della luce, come nel dipinto Respiro notturno ( N.CAT. 1207) del 2005.
Sono così trascorsi oltre cinquant’anni di una carriera umana e artistica in continua evoluzione, il cui leitmotiv è stata la ricerca delle ragioni ultime e assolute dell’arte. Ne risulta un panorama dell’evoluzione dell’opera dì Claudio Verna che illumina le molte sfaccettature di un fare arte e di una riflessione sull’arte. Ma non solo. Ci troviamo infatti di fronte a un fenomeno sorprendente, quello cioè di un artista che, in una fase avanzata della sua storia, ritrova – in una maniera che fa pensare a un eterno ritorno del sempre uguale – lo slancio e la libertà degli inizi e, seppure con un linguaggio modificato, li esprime con immutata energia in nuove opere. Nel corso della nostra trattazione abbiamo sfiorato indirettamente qualche data relativa ad avvenimenti storici che – siano essi di carattere culturale o storico-artistico – il tempo ha visto affiorare parallelamente alla vita e al lavoro di Claudio Verna e poi inabissarsi nuovamente, avvenimenti che hanno più o meno interessato, ovvero influenzato anche le sue posizioni intellettuali e creative. Nel frattempo Claudio Verna prendeva parte, come una volta egli stesso ha affermato, a ogni “nuova avventura con leggerezza ed entusiasmo, convinto che rischi, contraddizioni e azzardi costituiscono, alla fine, i cardini della ” sua “vera coerenza”27.
1 Werner Haftmann. Introduzione – Malerei nach 1945. in documenta 2 ’59 – Kunst nach 1945, catalogo della mostra internazionale Kassel, Band Malerei, M. DuMont Schauberg, Koin 1959, p. 17.
2 Ibidem, p. 14.
3 Ibidem, p. 12.
4 Ibidem, p. 17.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 Giulio Carlo Argan, Nello Ponente, Italien, in Will Grohmann (a cura di), Neue Kunst nach 1945 – Malerei, M. DuMont Schauberg, Koin 1958, p. 96.
12 Pierre Restany, A quaranta gradi sopra dada, Parigi, maggio 1961, 2° Manifesto, in Nouveau réalisme 1960/1970, catalogo della mostra, Milano, Rotonda della Besana 1970.
13 Pierre Restany, I nouveaux rèalistes, Milano, 16 aprile 1960, 1° Manifesto, in catalogo della mostra alla Galleria Apollinaire, Milano, maggio 1960.
14 Claudio Verna, intervista raccolta dall’autore nel 2009, trascrizione manoscritta, p. 4.
15 Ibidem.
16 Claudio Verna. Fare e pensare l’arte, relazione presentata all’Accademia dei Lincei, Roma, il 14 novembre 2008, manoscritto.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 Duden – Das graβe Fremdwörterbuch, ad vocem analisi, realizzato ed edito dal comitato scientifico redazionale del Duden, terza edizione aggiornata, Dudenverlag, Mannhein – Leipzig – Wien – Zùrich, 2003.
20 Claudio Verna, in Claudio Verna: opere 1967-2007, catalogo della mostra, Museo Nazionale d’Abruzzo. L’Aquila, Gangemi Editore, Roma 2007, p. 35.
21 Tayfun Belgin, Ulrich Erben, in Michael Fehr (a cura di), Die Farbe hat mich – Positionen nicht-gegenstandlicher Malèrei, catalogo della mostra, Karl Ernst Ostnaus-Museum Hagen e altre sedi, Klartext Verlag, Essen 2000, p. 53.
22 Klaus Honnef, Die geplante und analytische, fundamentale und elementare Malerei, bevor sie radikal wurde – Die siebziger Jahre, in “Kunstforum International”, volume 88. marzo/aprile 1987, p. 131.
23 Ibidem, pag. 132.
24 Ibidem.
25 Ibidem.
26 Claudio Verna, relazione presentata in occasione della “Giornata del disegno”, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 4 maggio 2009, manoscritto.
27 Claudio Verna, intervista raccolta dall’autore, loc.ct.