Claudio Verna, la persistenza del colore, in monografia Electa, antologica Palazzo Sarcinelli, Conegliano, dicembre 1998 – gennaio 1999
“Io mi dico pittore perché ho sempre pensato di potermi esprimere solo col colore. Ma il colore non è un attributo della pittura. Come dice Dora Vallier, la pittura occupa lo spazio in quanto colore”. Così mi scriveva Verna in una lettera del 1993, esprimendo molto più di una sua convinzione. Per lui la pittura coincide e ha sempre coinciso con il colore. Espresso con luminosità scandite e regolate o costituito da un’inquieta organizzazione segnica, il colore, nel corso degli anni, rimane quel centro che si irradia dal fondo alla superficie, che assorbe tutte le attenzioni dell’artista, in un rapporto inesauribile, fatto di azione e di riflessione.
Ma c’è un’altra frase, in quella lettera scrittami da Verna, che mi colpì immediatamente e ancora oggi mi sembra rivelatrice del suo modo di intendere la pittura e realizzarla: “II colore ha in sé la struttura che lo sorregge”. È questa una affermazione ricca di significati e al tempo stesso stimolante proprio per il suo contenuto aperto alle possibilità che dal colore possono nascere e che il colore stesso può suggerire, anche oltre alla propria condizione di elemento cromatico. Se si osserva attentamente il percorso di questo artista dalla fine degli anni cinquanta a oggi, ci si accorge come le diverse declinazioni della pittura, siano esse segniche o autoriflessive, abbiano tutte il loro fondamento nell’intensità con cui il colore è sentito e impiegato in ogni sua estensione.
C’è una serie di tempere del 1959 estremamente significative su questo aspetto fondamentale, lavori che ci permettono anche di osservare come Verna, awicinatosi alla pittura in un decennio dominato dall’Informale, ne coglie il messaggio più diretto e produttivo: una libertà che è della mano e del pensiero. Nessun modello formale precostituito, il segno trova il segno sulla spinta di una emotività immediata, ma non per questo casuale. Non appaiono le cadenze più drammatiche, i gorghi angosciosi che tanta parte hanno avuto nell’Informale. Questa assenza, questa particolare versione di un vivace cercare e ricercare del giovanissimo Verna, ci precisa la sua tensione di artista, che sarà sempre appassionata anche nelle fasi di maggiore analiticità, ma mai cupamente drammatica, proprio per quella tenace costanza e determinazione sul lavoro che lo terranno fuori da esasperazioni o smarrimenti. Credo non sia da trascurare, nella formazione culturale di Verna, dopo il suo trasferimento a Firenze nel 1957, la frequentazione e il rapporto di stima con gli artisti fiorentini dell’Astrattismo classico, Berti, Brunetti, Monnini, Nativi, Nuti, tutti nati tra il 1920 e il 1923, già fondatori di uno dei primi gruppi formatesi nel dopoguerra che esordì con una mostra alla Galleria Vigna Nuova, sotto l’originaria denominazione di Arte d’Oggi. Altrettanto significative sono le sue più dirette amicizie con pittori coetanei come Masi, Baldi e in particolare Guarneri con il quale esporrà in una doppia personale nel 1961. In questo stesso anno, laureatesi in sociologia, Verna torna a Roma dove, per cinque anni, dipinge intensamente ma in maniera del tutto appartata, senza esporre in nessuna mostra, per riesaminare il proprio lavoro con tutta la libertà e la concen-trazione necessarie, ma anche per capirne la reale collocazione. Non si dimentichi infatti come in un brevissimo arco di tempo, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, si aprono una serie di scenari che incideranno fortemente negli sviluppi dell’arte contemporanea. Prima la convergenza sul monocromo in ambito internazionale, poi l’arte cinetica, la pop art americana, che troverà proprio a Roma uno dei centri più ricettivi d’Europa, e poi ancora il minimalismo.
È con un olio del 1965, Astrazione, che Verna trova quella chiarezza d’intenti e di linguaggio dì cui sentiva il bisogno e di cui quest’opera si fa eloquente testimonianza. Per più motivi emblematica, la tela si presenta con lo spazio scandito in due aree distinte, con una immediata volontà programmatica. Nella parte superiore la pittura si presenta come colore e superficie, strettamente legate e in questo rapporto intese, colore-luce che coincide e definisce la concreta bidimensionalità della tela. Nella zona inferiore si afferma invece la costruzione del pensiero, il dominio della ragione in uno spazio bianco, rarefatto, dove segni sottili, verticali e trasversali, passano come direttrici di una modalità dell’essere. Lo spazio fisico del colore e lo spazio mentale della geometria non sono però in antitesi, si chiariscono e si completano. In Verna la sensualità cromatica sarà sempre anche espressione pienamente intellettuale, e l’intervento concettuale, conterrà sempre la misura sensibile da cui ha origine.
Dopo quest’opera che sostanzialmente anticipa e prepara quanto accadrà a partire dal 1970, si susseguono in rapida evoluzione delle tele che, in uno scavo tanto critico quanto di emozionata partecipazione, si appropriano dell’esperienza fondamentale che parte da Rothko, Newman, Louis, fino a Dorazio. Omaggio a Licini del 1967, Blu acrilico del 1968, Iterazione ambigua del 1969, sono alcuni dì questi lavori dove i problemi della monocromia, del rapporto con la superficie, delle sollecitazioni perimetrali, della ripetizione e della differenza, vengono affrontati come necessario passaggio al periodo di interrogazione profonda sul significato del fare pittura. È da questo momento, fino a poco oltre la metà degli anni settanta, che il lavoro di Verna si pone come uno dei più specifici, assieme a quelli di Giorgio Griffa e Carmengloria Morales, di quella declinazione analitica e riflessiva della pratica pittorica che si delinea in Italia, in consonanza con quanto avviene a livello internazionale.
L’assunto analitico di Verna è già, immediatamente, calato nella sua esigenza di mantenere uno stretto rapporto con il colore, di farne comunque il protagonista, dichiarato o implicito. In un acrilico del 1970 intitolato A 3, che rimane tra le sue opere più alte e sicuro riferimento per quel periodo della pittura italiana, sono sintetizzati tutti gli strumenti dell’analisi e al tempo stesso l’insopprimibile identità del colore e della sua luce. I segni della verifica e della ragione, la perimetrazione e le quattro croci rilevate a compasso, fissano e misurano un’area, ma affermano l’inafferrabilità della pittura. Questa tela, vero e proprio manifesto programmatico delle problematiche che l’artista intende affrontare, ne racchiude i principi originari; la speculazione concettuale e i suoi segni sono il campo, l’area a cui il colore si rapporta per travalicarlo, facendo del determinato il principio dell’indeterminato. Anche nelle opere successive, tra le quali voglio ricordare A 22 ancora del 1970, A 40 e A 59 del 1971, A 140 del 1972, il rigore dell’indagine si accompagna a una ricerca dello scarto, della lieve discordanza, della sbavatura, dello slittamento. Caratteristica di questi lavori è la riduzione degli elementi strutturali della composizione, dove riduzione non significa affatto semplificazione ma, come già Mondrian e Malevich ci hanno dimostrato, approdo a differenti rapporti ideativi e costitutivi, nel segno di una differente complessità.
Deve essere chiaro come la componente mentale, il filtro razionale e metodologico che si legano a questa pittura, divenendone una componente inscindibile e stimolante, svolgono un’indagine autoriflessiva, tutta interna cioè alla pratica pittorica. È questo un punto su cui non devono essere equivoci: una cosa sono le proposizioni analitiche, le consequenzialità logiche, realizzate con gli strumenti della pittura e dunque inequivocabilmente all’interno della pittura, diversa cosa sono le analisi linguistiche condotte con altri mezzi, sulla natura dell’arte, prevalentemente dal concettualismo. E non a caso, uno dei suoi maggiori protagonisti, Kosuth, ha affermato che “se si indaga sulla natura della pittura, non si può indagare sulla natura dell’arte”. Alcune analogie teoriche e di metodo, non conducono affatto a intenzionalità comuni tra pratiche concettuali e pratiche analitiche della pittura. Anche per questo motivo ho sempre preferito riferirmi alla riflessività piuttosto che alla analiticità della pittura in questione. Le indicazioni del concettualismo più rigoroso, si muovono nella direzione di una progressiva eliminazione o almeno riduzione di presenze fenomeniche, che determinano quelle inevitabili stimolazioni sensoriali respinte da quest’area di esperienze artistiche.
Tra il 1970 e il 1976 Verna ha fatto ruotare la propria ricerca su un unico, ma inesauribile tema: osservatore e osservato fanno parte di un unico processo di reciproca e continua definizione. Nella specificità della pittura che si osserva mentre si realizza, non vi è alcuna possibilità di reale scissione dei processi. Lo strumento d’indagine è parte stessa dell’oggetto indagato. La serie Archipittura, forse la più esplicitamente investigativa tra quelle dipinte da Verna, chiude questo periodo importante inserendo al proprio interno delle anticipazioni che solo susseguentemente appariranno evidenti. La progettualità poetica che percorre la serie e che lo stesso artista ricollega idealmente a Klee e Licini lascia scorgere infatti, nelle ultime tele, una libertà di stesura e una vibrazione emotiva che saranno tra le componenti di primo piano dei nuovi lavori.
I mutamenti che avvengono nella pittura di Verna a partire dal 1977 non rispondono a una evoluzione esclusivamente personale ma, proprio per la sua sensibilità e attenzione alle vicende culturali, riflettono il reale cambiamento che si determinò tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta nella situazione artistica internazionale. Il venire meno di rigide distinzioni tra una tendenza e l’altra, l’affrancamento dai timori di non essere sempre protesi in ricerche sperimentali, permisero quelle connessioni tra quanto era disgiunto che sono alla base dell’arte ancora oggi praticata. Ecco allora che l’adozione da parte di Verna di modalità pittoriche che ci ricordano l’Informale, non sono un ritorno all’Informale, ma la finalmente liberata possibilità di procedere turbando il passato. Riprendere ipotesi non realizzate, effettuare contaminazioni con concezioni odierne, riappropriarsi cioè di energie e valori rimasti sommersi e inoperanti.
Verna avanza quindi con meno regole e minori garanzie, sapendo che l’incertezza è oggi un elemento indispensabile dell’esperienza e che la stessa pittura ha una ragione d’essere solo se rischia la propria cancellazione. Ed è questo scoprirsi totalmente, muoversi il più possibile entro il rischio di vanificarsi, che alimenta il lavoro dei primi anni ottanta e oltre. Le differenze che spesso distinguono le opere di questo periodo, penso a Narciso, Alpha Centauro, La natura siamo noi ecc., sono dovute a quell’oscillazione che si è inserita nello svolgersi del percorso. Un’esperienza che non vuole indicare soluzioni, fornire prove, ma rimanere se stessa, seguendo delle tracce, sollevando interrogativi. Ancora una volta pittura che riflette sulla pittura. Una riflessione però a cui interessa poco analizzare, ma dilatare il proprio ambito, superare i limiti di un pensiero che si pensa e accogliere ciò che è altrove, facendone motivo di sollecitazione profonda. Shahrazad, un olio del 1985, è un’opera importante perché, con la sua straordinaria qualità, rappresenta, meglio di altre, sia una sintesi dei motivi che hanno abitato i quadri di Verna negli anni immediatamente precedenti, sia una prima indicazione di quella scansione costruttiva del colore che si affermerà nei lavori successivi. I segni diffusi sulla superficie di Shahrazad hanno un ritmo che li guida e li accomuna, così da essere lievi nel loro errare, ma presenti e coordinati nell’immagine complessiva.
Il gorgo e l’artificio, II muro degli uccelli, entrambi del 1987, Figura in uno spazio classico dell’anno seguente, Trama e Romamor del 1989, sono tutte opere di grande intensità che utilizzano il farsi costruttivo del segno. Segno totalmente pittorico, che dal colore nasce e al colore riconduce, in una strutturazione più spontanea che predeterminata. Dove le aggregazioni e le disseminazioni segniche, la loro mobilità, i sommovimenti, anche se guidati da un orientamento armonico, non seguono i dettati di un progetto, ma il particolare rapporto che in questo momento Verna ha con il colore, nella ricerca e nell’affermazione di quel suo convincimento che “il colore ha in sé la struttura che lo sorregge”. Un’idea che in questi anni assume un significato molto più specifico, passando da una generale visione delle forze proprie, insite nell’essenza stessa della pittura, a un approdo formale di quelle possibilità che il colore possiede.
In Romamor la pittura ci afferra e ci costringe a seguirla. C’è qui un andamento particolare, dal ritmo spezzato, ma unitario nella sua continuità. Tutto è portato al contrasto tra la più leggera e luminosa delle superfici e la più oscura delle profondità. Il pennello è continuamente in equilibrio tra questi estremi territori e velocemente passa da uno stato all’altro, senza concedersi una pausa, tessendo una doppia trama che, come per il titolo, è percorribile nei due sensi. Con Superficie nera del 1990 la pittura emerge da un confine che vorrebbe escluderla. Dalle tenebre, dal nero, è il gesto a riattraversare il passaggio che porta il colore ad accogliere la luce. Con un fascino dell’estremo dove il desiderio di pittura porta al suo ritrovamento. Opere, queste, che nascono da un legame interno e appassionato tra l’artista e l’opera, in un confronto, tra pittura e pensiero che la comprende, diretto alle radici, a quel coinvolgimento di cultura e sentimenti proprio di questo lavoro.
Negli anni novanta si conferma definitivamente quel “sistema aperto” della pittura nel quale Verna ora si sente immerso e impegnato. Senza preoccupazioni di coerenze formali che, in realtà, non possono poi mancare, per le qualità di una mano e di un pensiero che hanno una storia e una individualità. L’importante è comunque sfuggire alla maniera, alla ripetizione stanca, salvando quello spirito di sfida e di azzardo che dovrebbe esserci sempre nel lavoro artistico. C’è un profondo senso di rispetto e al tempo stesso di fiducia nelle inesauribili risorse della pittura, nella sua capacità di poter coniugare il nuovo con la continuità di una lunga tradizione. Ed è proprio quanto ritroviamo nelle opere di questo artista, dove la storia di una certa pittura da Balla a Dorazio, da Rothko a Morris Louis, senza citazioni, senza connessioni testuali, nella sua piena originalità, è tuttavia presente con il rimando a un respiro e un’emozione che non possiamo non avvertire. Nei quadri più recenti si può rilevare la persistenza di una linea, tra le altre, di estrema rarefazione, dove la delicatezza e la luminosità del colore trasmettono il senso di una grande potenza della pittura e non certo di una sua fragilità. Quanto più la superficie della tela si ricopre di tenui cromaticità e trasparenze, tanto più si impadronisce del nostro sguardo e ci trattiene. Schegge, del 1996, è in questo senso un’opera preziosa, dove la pittura dimostra di possedere delle risorse ancora eccezionali, ricche di quella magia del colore e dei suoi svelamenti che troppo spesso si credono esauriti. Altrettanto esemplari sono Arcipelago e il singolare Corvi in pattuglia, entrambi del 1997, mentre con Pagine consentite del 1998, Verna si spinge in quelle zone estreme che a volte gli piace esplorare, come ha fatto con le pitture nere degli anni settanta o, con la già ricordata Superficie nera del 1990. In questo caso il percorso di Pagine consentite è rivolto nella direzione opposta, verso una luminosità così intensa da dilavare ogni consistenza cromatica. È però ancora una volta il colore ad avvantaggiarsi di questo estendersi del bianco, che assorbe e incorpora, lasciandosi velare, quasi ricoprire, ma in realtà resistendogli, mantenendo una presenza a macchie che si arricchisce nel suo farsi più lieve e immateriale. Osservando meglio ci si accorge infatti che è il bianco a non essere più tale, tutto quanto il colore ha ceduto, è ora diffuso percettivamente nella trasparente luminosità della superficie. Una luce che è costante negli ultimi lavori, come quella rosso e arancio di Pittura scontrosa, un altro quadro dove il dipingere si svolge con felice naturalezza, con il ritmo di un respiro pieno, dove il rapporto con il mondo segue la particolare e irripetibile sollecitazione di quel momento.
“Il vero pittore, per tutta la vita, cerca la pittura; il vero poeta la poesia…”, è questa una affermazione di Valéry che già in altra occasione ho accostato a Verna, non solo per la sua tenace e appassionata riflessione sulla pittura, anche teorica perché non pochi e non secondari sono i suoi scritti, ma per un più riposto motivo. È quella particolare espressione “cerca la pittura” ad avermi colpito, non il proprio stile, il capolavoro, la definizione di una nuova grammatica, semplicemente e smisuratamente, la pittura. Così è per questo artista, che sa come tale assillo costituisca un legame profondo e interminabile, eppure necessario e vitale.
L’effettiva continuità che attraversa tutta l’opera di Verna non è infatti da ricercare nella tradizionale stabilità della forma, ma nel persistere del colore come essenza primaria dotata di una propria capacità di infondere senso. È il colore a consentire la pittura, non viceversa. Se si comprende questa peculiarità e si applica una lettura conseguente, anche l’apparente stacco tra anni settanta e seguenti, perde significato. Le differenze di indagine restano e a testimoniarlo sono proprio le diverse impostazioni formali, ma è il cuore del problema a rimanere lo stesso. Il colore si pone come un elemento di infinita esperienza e conoscenza, molteplice e vario per sua stessa costituzione. Dimora pertanto di un continuo apprendere, più che di un sedimentato sapere. La pittura e il gesto che la compie sono il movimento di questa avventura conoscitiva, rinnovata e rinnovabile in ogni nuova tela. Perennemente ruotanti attorno a un desiderio che non si giunge mai a colmare.