Verna, ritorno alla pittura. Una storia in tre grandi quadri, “La Repubblica”, edizione di Bologna, 28 marzo 1986
“La libertà per cui si lavora ha un senso solo se è totale: i limiti solo quelli della disciplina. Oggi, i miei soggetti sono sempre più identificabili e i titoli ne danno un’indicazione abbastanza approssimativa. In altre parole fanno parte del quadro, della sua storia e della sua utopia”. Queste parole di Claudio Verna si affacciano spontaneamente alla memoria visitando la mostra che ha allestito presso la Galleria Nuova 2000 di Bologna: tre grandi quadri dagli avvincenti colori a olio (Shahrazad, Enigma e Con la testa fra le nuvole), tutti dipinti fra il 1984 e il 1985, attraggono la sensibilità del visitatore per la libera espressività che da essi promana e ne arrestano la razionalità sulla soglia di un rigoroso discorso formale che esige di essere inteso per consentire di passare oltre.
Questa, che l’artista stesso dichiara essere la terza fase del suo itinerario, una fase apertasi una decina d’anni fa in coincidenza con quel “ritorno alla pittura” su cui, per la comprensione dell’arte contemporanea, sarebbe necessario un discorso critico chiarificatore, presenta certamente una più ampia libertà espressiva nella esibita gestualità del segno, ma senza contraddire la coerenza dell’analisi linguistica e del controllo intellettuale (la “disciplina”, appunto) che hanno caratterizzato l’opera di Verna fin dal suo esordio fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Venuto alla pittura nel clima dell’informale, Verna, che è nato nel 1937, si caratterizza lungo l’arco turbinoso delle nuove avanguardie che seguono gli anni Sessanta, per la scelta decisamente astratta, elaborata su un versante strutturalmente geometrico, e per il conseguente interesse analitico rivolto ai problemi che attengono il linguaggio pittorico.
La fine dell’avanguardia segnata dall’esplosione eversiva del Sessantotto e la conseguente messa in questione della pittura stessa fino al suo azzeramento nelle pratiche concettuali e comportamentali, spingono Verna a una intensa riflessione, non disgiunta da una attività pratica accanita, sulla pittura, sul permanere della sua essenza al di là di quella che appare come la sua definitiva scomparsa.
Diviene così uno dei protagonisti, assieme a Griffa, Olivieri e pochi altri, di quella tendenza che si vuole indicare come “Nuova pittura” – ma che altrettanto significativamente viene anche definita “Pittura pittura” o “Pittura di superficie” – e della quale anche pare opportuno operare una revisione critica per scovare l’importanza da essa avuta nelle vicende degli anni Settanta dalla confusione che ne ha dilatato i confini fino a renderli estremamente incerti.
E’ comunque in questo periodo che Verna acquisisce quella consapevolezza del dipingere che, da un lato, è coscienza storica dei processi contraddittori a cui l’arte nell’età delle avanguardie è soggetta e, dall’altro, è conoscenza teorica di ciò che permane attraverso tali processi come specificità ineliminabile della pittura.
Questa consapevolezza assume ora una dimensione pratica più ampia, un campo d’azione in cui tendenzialmente identificare lo spazio della pittura e quello della realtà: uno spazio in cui la pennellata, elegante nella sua matericità sgranata, sia allo stesso tempo un segno pittorico e la traccia di una pulsione profonda; uno spazio in cui il colore sia, insieme, l’espressione oggettiva dell’universo pittorico e la tensione soggettiva verso la pressione di tale universo.
In questo equilibrio, che non può che essere precario perché fondato su una libertà da conquistare ad ogni pennellata, si avverte il pericolo che corre consapevolmente l’espressione artistica nel momento stesso in cui si afferma come necessaria: fragile nella forma sensibile così accuratamente calibrata e insopprimibile nella sostanza teorica che la regge.