Dipingo ormai da 30 anni, e la mia storia personale, i miei problemi di artista si intrecciano inevitabilmente con le vicende pubbliche dì questo periodo.
In particolare ci sono tre date, il 1960, il 1968 e il 1977, che secon­do me possono essere considerate, sia pure con grossa approssimazio­ne, veri e propri momenti di svolta, in cui violenti cambiamenti del gusto hanno coinciso con rivolgimenti sociali e politici, con il morire o l’affermarsi di nuove ideologie, e infine con tumultuosi ricambi genera­zionali. Parlare della mia esperienza significa, perciò, anche vedere come ho vissuto quei momenti, cosa hanno significato e dove mi hanno portato.

1. Gli anni 50, cioè quando cominciai a dipingere e ad esporre, furono tutti sotto il segno dell’Informale. Informale è un termine che non de­signa propriamente una tendenza, ma piuttosto un clima, una temperie culturale, in cui convivevano esperienze a volte molto diverse.
Ma volendo trovare dei tratti comuni, si può dire che l’informale era rivolta e negazione delle forme chiuse e fredde dell’astrattismo geome­trico; era esaltazione della componente romantica, espressionista e in­conscia dell’artista; era il versante dionisiaco della vita contrapposto a quello apollineo; era la ricerca dell’io profondo, la vittoria del flusso vitale nei confronti del razionalismo, il trionfo della generosità e dello spreco contro il calcolo e la misura; era l’interpretazione soggettiva del mondo.
Ma tutto questo, se da un lato creava le condizioni più favorevoli per ottimi artisti che poterono dare il meglio di sé, dall’altro lato non favoriva il nascere di basi né teoriche né pratiche per un nuovo linguag­gio. In altre parole, l’Informale esasperava le ipotesi, i progetti e le esperienze precedenti, portandoli al punto di rottura, cioè all’azione, alla performance, al teatro.
L’artista esprimeva se stesso, ma non diventava tramite consapevo­le dei problemi, delle ragioni dell’arte; insomma non cercava un lin­guaggio comprensibile ma esibiva il suo dramma privato, sia pure con nobiltà, generosità e assoluta buona fede.
Ad un certo punto, verso la fine degli anni 50, molti artisti, specie noi più giovani, cominciammo a chiederci dove ci stava portando la strada dell’Informale. La vecchia polemica tra astrattismo e realismo diventò sempre più irrilevante, e invece si pose un nuovo e tutto di­verso dilemma:
pittura o non-pittura?
Spazio reale (performance e azione) o spazio virtuale (della tela)?
Politica o arte?
Discipline tradizionali o computer, laser ecc.?
Sono domande cruciali per l’arte contemporanea, che torneranno più volte negli anni seguenti, sia pure mimetizzate, travisate o stra­volte.
Io personalmente sommai, alla difficoltà di dare risposte precise, una mia crisi di identità, come si direbbe oggi: cominciai ad interrogarmi sulla condizione dell’artista e sulla mia in particolare, per decidere alla fine, pur dipingendo moltissimo, che non avrei più esposto fin quando non avessi sciolto certi nodi sulle ragioni del lavoro.

2. Alla lenta agonia dell’Informale seguì, come sempre succede in que­sti casi, una fioritura strepitosa di nuove proposte: cominciavano i “favolosi” e ormai mitizzati anni ’60.
La grande maggioranza degli artisti sentì la necessità di forzare i li­miti della pittura come disciplina per invadere nuovi campi e tentare strade diverse da quelle che sembrava indicare la tradizione. Si impose soprattutto la pop-art in tutte le sue varianti nazionali, ma pochi ricor­dano che la minimal art nacque in America contemporaneamente alla pop, anche se ebbe successo solo molto più tardi. Sono gli anni dell’ar­te gesthaltica, dell’arte di gruppo, della optical art, dell’arte program­mata e così via.
Comune a tutte queste esperienze, anche le più diverse, è una sfidu­cia di fondo nell’istituto della pittura, in nome di un’arte che fonda la sua teoria e la sua necessità in un rapporto sempre meno mediato con la realtà. Lo sbocco inevitabile sarà il 1968, quando l’ideologia prende­rà definitivamente il sopravvento e la pittura, in quanto ancora spazio privilegiato di esperienza e conoscenza, sarà dichiarata decaduta, anti­quariato.
Naturalmente questa mia visione delle cose è forzata, paradossale e strumentale: non tutti i pittori smisero di dipingere e anzi si toccaro­no in pittura vertici altissimi. Ma il clima che si respirava era quello.
Io, nel mio studio, passai cinque anni (dal ’62 al ’66) a lavorare co­me un forsennato, cercando di capire se facendo pittura c’era ancora la possibilità di fare arte, e possibilmente grande arte.
Ad una prima conclusione ero arrivato abbastanza presto: io mi de­finisco pittore perché penso di potermi esprimere soltanto con il colo­re. E non esiste un mezzo più ricco, duttile e straordinario del colore a olio su tela per chi abbia fatto una scelta come la mia.
Ma naturalmente questo non bastava, perché vedevo attorno a me artisti che facevano esperienze diverse dalla pittura e comunque ricche di interesse, di novità e di qualità. Io ho sempre guardato questi artisti con grande attenzione e rispetto, qualche volta con vera ammirazione. Ma quando tornavo alla pittura, mi rendevo conto che i problemi affrontati da quegli operatori estetici (non è colpa mia se si definivano così) erano gli stessi anche all’interno del mio lavoro.
Mi convinsi allora che la pittura non è una categoria dello spirito, ma un semplice mezzo che può essere per alcuni più congeniale di altri alla ricerca e alla espressione del proprio mondo linguistico.
Ma mi resi conto, anche, come sulla pittura incombesse un peso im­menso, quello della tradizione, che spaventava; che gravassero su di es­sa equivoci e condizionamenti che altre strade sembravano evitare. Per cui, per usare un mezzo tanto affascinante ma cosi pericoloso, era ne­cessario recuperarne prima tutte le potenzialità con una indagine acca­nita, profonda, teorica insomma dei suoi elementi costitutivi, della sua struttura, della sua storia.
Fu dunque questo l’impegno che presi con me stesso, consapevole che la strada da percorrere era senza scorciatoie.

3. Quando nel 1967 tornai ad esporre, mi trovai di fronte alla più as­surda e intransigente negazione della pittura: era il momento dell’arte povera, cui sarebbe seguita la conceptual art. Ma ormai ero troppo convinto delle mie ragioni e del mio lavoro in pieno sviluppo, per far­mi travolgere da nuovi dubbi.
Seguirono anni di polemiche, di molta teoria (a volte ingenua, a volte provocatoria), di gruppi e tendenze, di mostre non sempre giuste, di nuova-pittura e di pittura-pittura. Partiti in pochissimi, ad un certo punto ci ritrovammo in tanti cioè in troppi.
Per quanto mi riguarda, l’equivoco più grosso fu questo: mentre io, fin dall’inizio, avevo ben chiaro l’obiettivo di recuperare, direi quasi progressivamente, tutte le potenzialità della pittura per conquistare la mia libertà e fare arte nel senso più ampio e ricco della parola, altri teorizzarono le fasi intermedie di questo processo come obiettivi finali o addirittura mete raggiunte.
Inoltre, mentre io continuavo a confrontarmi con le altre esperienze che si facevano fuori della pittura o in altre aree della pittura, molti tornarono ad alzare barricate.
I risultati si sarebbero visti presto. A metà degli anni ’70, una cappa di noia e di freddo cominciò a calare sul mondo dell’arte: mostre sempre più asfittiche, quadri sempre più azzerati e privi dì colore, ipo­tesi concettuali sempre più sofisticate, un linguaggio ai limiti dell’asfis­sia.
Al contrario, i miei quadri diventavano sempre più colorati, e io mi abbandonavo al piacere di una libertà lungamente cercata e finalmente vicina.
Ancora pochi anni e, intorno al ‘77/’78, ci sarebbe stato il ricambio generazionale e di gusto più violento che io ricordi.

4. Le vicende degli ultimi 7-8 anni sembrerebbero darmi completamen­te ragione: la pittura non ha più bisogno di essere difesa; il crollo degli steccati ha dato diritto di cittadinanza alle esperienze più diverse; si sentono nuovamente parole che sembravano rimosse per sempre come poesia, bellezza, verità, qualità, persino anima (e non più solo psiche).
Ma la realtà è molto più complessa.
Più che un ritorno alla pittura, c’è stato un generalizzato riflusso sul quadro. Molti artisti non fanno pittura ma, con un tipico equivoco concettuale, pensano di poter usare la pittura come se questa fosse un codice, concluso e definito una volta per tutte, consegnatoci dalla tra­dizione. In altre parole considerano ancora il quadro quasi la didascalia di un’idea, mentre invece la pittura è qualcosa che esiste solo nel mo­mento della sua realizzazione; è sintesi di teoria e pratica; è codice che mette continuamente in crisi il codice precedente, in un rapporto in­cessante con la tradizione; è invenzione, rischio, azzardo continuo.
Il ritorno alla figurazione, poi, appare più una scelta tattica che una reale necessità, perché non si innesta né sulla grande tradizione né su un effettivo superamento dell’impasse astratto. In arte i tempi sono lunghi e i problemi maturano lentamente anche se poi, per fortuna, ci sono scarti e scatti improvvisi. Invece temo che quello che sta succe­dendo oggi rientri nell’ambito dei movimenti ciclici, tipici del gusto e della moda.
Il declino delle ideologie, se ha spazzato via gabbie asfissianti, ha anche generato un qualunquismo diffuso, ha reso tutto sordamente relativo e ha livellato gerarchie inevitabili. Demonizzare il mercato, per esempio, è stupido; ma è anche ridicolo porlo sullo stesso piano della qualità (termine questo quasi impossibile da definire, ma che co­munque si può misurare solo in relazione a dei valori).
Insomma i problemi ci sono come sempre, resi diversi e più acuti dalla civiltà di massa, che ci sta imponendo nuovi comportamenti e nuovi compiti. Ma si possono intuire anche possibilità incredibili e perfino affascinanti.