Ho intitolato questo quadro La Soglia perché indica letteralmente la soglia del vedere, la soglia della percezione visiva. Il quadro è dipinto con colori ad olio che consentono, a differenza degli acrilici che uso attualmente, una elaborazione lenta, stratificata, per velature e sovrapposizioni, delle “figure” (per dirla con Filiberto Menna) che alla fine emergeranno come protagoniste del quadro. Così, il tempo di realizzazione di questo quadro è stato particolarmente lungo.
Io non faccio disegni preparatori del quadro. Intervengo direttamente con il colore, affido interamente al colore la capacità di determinare la struttura del quadro. Penso infatti che la pittura, intendo la pittura dipinta, identifichi lo spazio in quanto colore: e io stesso mi definisco pittore in quanto penso di potermi esprimere soltanto con il colore.
Storicamente ci sono stati molti modi di esprimersi con il colore e penso che in un futuro, peraltro già cominciato, ce ne saranno di nuovi, a partire dall’uso del computer: personalmente uso colori a olio su tela, e ora gli acrilici, perché penso che siano straordinariamente duttili, ricchi di possibilità infinite, vitali come non mai. In questo quadro ho cercato la saturazione massima del colore, delle infinite gamme dei colori caldi, dal giallo al rosso al viola. Per saturazione intendo la capacità del colore di raggiungere il massimo della sua potenza luminosa.
La luce non è un qualcosa di esterno al quadro che illumina le figure, la luce determina le figure, in qualche modo le fonda: senza la luce le cose non sarebbero al buio, semplicemente non esisterebbero. Nella elaborazione di questo quadro, come in tutti i miei lavori, ho cercato di conservare ad ogni segno, a ogni gesto, a ogni pennellata tutta la loro autonomia e la loro energia: nello stesso tempo, ho cercato di fare in modo che queste pennellate autonome, organizzandosi tra loro, creassero una immagine, una “figura” appunto, capace di identificare il quadro stesso.
Il lavoro si è protratto a lungo, io sono come precipitato in questa dimensione luminosa del quadro, fino a rischiare di perderne il controllo: la soglia è proprio il punto in cui mi sono fermato, perché oltre avrebbe avuto il sopravvento l’inconscio, l’irrazionale, che pure sono parte fondamentale del lavoro. Progetto e abbandono, razionalità ed emozione devono convivere nel mio lavoro, altrimenti il quadro non mi somiglia più. MI muove la passione, ma non voglio diventare né sordo né cieco.
A questo punto, un passo indietro per spiegarmi meglio. Io ho cominciato a dipingere alla fine degli anni 50, quando l’informale era ormai alle ipotesi estreme.
I miei primi quadri sono quindi informali e l’informale era, semplificando, la vittoria del dionisiaco sull’apollineo, la compromissione senza mediazioni con la vita. Oltre un certo limite c’è la maniera o il caos. Come sempre in questa casi, i giovani, e io tra questi, cercarono altre strade: gli anni 60 furono questo, la ricerca di nuove strade. Molti uscirono dallo spazio virtuale della tela e si tuffarono nello spazio reale con le installazioni e le performances, altri nell’indagine del concetto stesso di arte, e così via.
Io stesso feci molti tentativi in questo senso, ma mi resi conto quasi subito che senza il colore mi sentivo inadeguato, quasi mutilato nelle mie possibilità di espressione. Allora mi impegnai in una indagine accanita sulla storia della, pittura, sugli elementi primari, costitutivi della pittura. Arrivai a fare quadri con un solo colore, ma non monocromi: identificavo una figura, prevalentemente geometrica con 3-4 mani di colore, giallo per esempio, diversificandola dal fondo dipinto con una sola mano di giallo. Si determinava così, un triplice ordine di rapporti: caldo/freddo, chiaro/scuro, lucido/opaco. Cioè tentavo di estrarre da un solo colore tutte le sue potenzialità.
E’ chiaro che in questa fase l’aspetto speculativo è importante, come è importante la progettualità. Fu dunque una fase, un momento (durato qualche anno) per me determinante, indispensabile per recuperare tutte le possibilità della pittura. Dalla metà degli anni 70 il mio lavoro è questo: la ricerca dell’equilibrio, dell’integrazione spontanea di questi due momenti: dell’emozione e del progetto. Ma il progetto non è esibito, non si vede, non si deve vedere: conta solo il risultato, che nella sostanza è profondamente diverso da quello informale, che era solo abbandono vitalistico.
Un’eco, una conseguenza di quegli anni, di quel periodo, è per esempio la scansione in due tele di questo quadro. A volte le due tele accostate servono a far dialogare tra loro immagini diverse, a volte a farle scontrare; il tema del quadro è proprio questo incontro-scontro. Altre volte, come in questo caso, le due tele giocano sulla specularità, sull’integrazione. Diverse ma simili, devono interagire, fino a far dimenticare la divisione che resta in sottofondo.
Ma non posso concludere senza dire una cosa che secondo me è fondamentale. Ogni opera artistica, quindi anche ogni quadro, nasconde dentro di sé, forse dietro di sé, la vera opera. Quando comincio un lavoro, attivo tutte le mie idee, le mie emozioni, le mie capacità, la mia immaginazione: ma poi, ad un certo punto, il quadro comincia ad acquistare una sua vita, la sua identità e mi costringe a seguire le sue indicazioni. Il quadro si decide esattamente in quel momento.
Sta tutta qui la magia e il mistero dell’arte.